Santiago Maldonado, Raphael Nahuel e Camilo Catrillanca, rispettivamente 28, 22 e 24 anni al momento della morte, avvenuta in tutti e tre i casi per circostanze “non ufficialmente chiarificabili” – seppur chiarissime – tra agosto 2017 e novembre 2018. Tutti e tre morti ammazzati durante operazioni di «pulizia territoriale» in aree tra la Patagonia e l’Aracaunía, formalmente appartenenti ad Argentina e Cile ma di “proprietà” originaria del popolo Mapuche. Operazioni in cui la Gendarmería fa ampio ricorso tanto a proiettili quanto a furti e alla fabbricazione e falsificazione delle prove, ma nelle quali ad essere condannato è chi protesta, chi resiste e chiede che le terre siano restituite a chi le ha sempre abitate o che non siano avvelenate dal cattivo progresso. Ad essere condannato è chi viene represso e non chi reprime perché, come la storia e la recente attualità dimostrano, se a commettere abusi sono alcune particolari figure istituzionali, «il fatto non costituisce reato».

Per approfondire:
Raphael Nahuel: un anno di lacerante impunità – Jean Georges Almendras, Antimafia Duemila, 3 dicembre 2018;
Camilo Catrillanca: tutti sanno chi è stato – David Lifodi, La Bottega del Barbieri/Pressenza, 18 novembre 2018 ;

È una prassi antica, quella di falsificare le prove. Una storia sempre più familiare per l’Italia, che l’ha vista applicare in patria con l’assassinio di Stefano Cucchi e nelle sue relazioni internazionali, tanto con l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi e l’omicidio di Giulio Regeni che negli stessi rapporti con Buenos Aires (circa 2 miliardi di scambi commerciali al 2017 secondo i dati InfoMercatiEsteri); perché il caso Maldonado e l’intera vicenda del popolo Mapuche toccano da vicino gli interessi economici italiani: le terre rivendicate dal “Popolo della Terra”, infatti, dal 1991 sono legalmente proprietà della famiglia Benetton, principale proprietaria terriera d’Argentina.
Come familiare è ormai la repressione dei movimenti per la tutela ambientale in Italia: dai movimenti contro le grandi opere inutili ai gruppi di cittadini (re)attivi contro l’avvelenamento delle terre da Casale Monferrato al triangolo Augusta-Melilli-Priolo.

Morte (accidentale?) di uno “stregone” anarchico

Formalmente è un «non luogo a procedere» contro il sottotenente Emmanuel Echazú a censurare la verità sull’omicidio di Santiago Maldonado, dei tre il caso di maggior eco internazionale. È questa la decisione del giudice Gustavo Lleral del Tribunale federale di Chubut che il 29 novembre 2018 – durante il G20 di Buenos Aires (Wall Street Italia) – chiude il caso sostenendo che quella di Santiago è una morte accidentale avvenuta per una «sommatoria di incidenti»:

la disperazione, l’adrenalina e l’eccitazione naturalmente causate dalla caduta; la profondità del pozzo, i rami spessi e le radici incrociate sul fondo; l’acqua ghiacciata [che ne] inumidiva i vestiti e le scarpe fino a raggiungere il suo corpo. Quella sommatoria di incidenti, ha contribuito a farlo affondare e a rendere impossibile il galleggiamento, impedendogli anche di poter emergere per prendere ossigeno

E se Santiago, l’artigiano anarchico noto come lo “Stregone” (“El Brujo” in spagnolo), muore cadendo in un pozzo non c’è alcun omicidio e dunque nessun reato da imputare ai gendarmi.
Tutto accade il 1 agosto 2017, durante una manifestazione per il rilascio di Facundo Jones Huala, leader Mapuche detenuto dal giugno 2017 nel carcere federale Unità 14 di Esquel per aver richiesto la restituzione delle terre al suo popolo.
Secondo quanto ricostruito da Javier Llorens su “Striptease del Poder”, per sfuggire ai gendarmi Santiago dovrebbe attraversare il fiume Chubut, ma non sapendo nuotare si nasconde, fradicio e infreddolito, dietro un arbusto dove viene raggiunto da tre gendarmi – tra cui il sottotenente Echazú, unico imputato nel processo – che lo colpiscono con pugni, pietre e con i calci dei fucili, probabilmente fino ad ucciderlo, tanto che il suo corpo verrà portato fuori dall’area in un sacco nero, come dimostrano le immagini della stessa Gendarmería (analizzate dai giornalisti di StripteasedelPoder.com). I segni delle percosse sul suo corpo non verranno rilevati dall’autopsia anche per effetto degli abiti bagnati.

Per 78 giorni di Santiago non si trova traccia, tanto che in quelle settimane il suo nome entrerà nella lista degli oltre 6000 desaparecidos che l’Argentina registra dalla fine della dittatura civico-militare ad oggi[1] e di cui almeno 200 scomparsi per mano della polizia. Il suo cadavere verrà ritrovato a 300 metri a monte del luogo della desaparición: una prima stranezza se si considera che i morti, solitamente, non nuotano, soprattutto controcorrente. E forse non è un caso che i pompieri, nei tre giorni di ricerca successivi alla scomparsa,in quell’area non lo trovino né vivo né morto.
L’ipotesi iniziale è che l’omicidio non sia voluto; ipotesi che cade con la “verità” ufficiale della morte accidentale. È però la stessa Procuraduría de Violencia Institucional – creata nel 2013 come organismo di contrasto alla violenza perpetrata da parte delle forze dell’ordine argentine – ad accertare che i gendarmi accerchino Santiago ancora vivo. Ma il rapporto che evidenzia questo dettaglio viene immediatamente occultato, come evidenzia Sebástian Premici, giornalista e autore del libro “Santiago Maldonado, un crimen de Estado”

Perché Llleral non indaga sul ruolo dei Gendarmi durante la repressione che portò alla morte di Santiago Maldonado? Fino a che punto si può attribuire la morte dello “Stregone” ad un incidente quando decine di gendarmi entrarono nella zona sparando all’impazzata? Lleral sostiene che non c’è stata sparizione forzata e calza alla perfezione con l’ipotesi del Potere Esecutivo: secondo cui Maldonado entrò nel fiume, cadde in un pozzo e morì. Nessun contesto. Nessun esecutore di una politica di repressione

Domande per la ricostruzione di una una verità “ipotetica”

Ma se la morte è non voluta, o addirittura accidentale, perché la catena di comando, che passa dal capo della polizia di Chubut Juan Ale per arrivare fino a Patricia Bullrich, (ministra della Sicurezza del governo nazionale di Mauricio Macri che Estela de Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo accusa di essere la «autora intelectual» dell’omicidio) si attiva fin da subito per bloccare le indagini, falsificando i registri relativi ad armamenti e veicoli usati – pulendo accuratamente questi ultimi – al fine di cancellare eventuali tracce? Nei registri, denuncia in una conferenza stampa del settembre 2017 Verónica Heredia, avvocatessa della famiglia Maldonado, si trovano «pagine incollate con lo scotch, i nomi sono cancellati e sovrapposti, mancano le ore e i giorni» (video).

Ma se Santiago Maldonado muore per morte accidentale a cosa serve depistare le indagini? E perché Lleral denuncia, e poi smentisce, di aver subito pressioni per indirizzare la sentenza verso la morte accidentale dopo essere stato chiamato a sostituire il giudice Guido Otranto, accusato di aver collaborato proprio con quella Gendarmería che avrebbe dovuto giudicare?

Mapuche, essere “palestinesi” in America Latina

La risposta potrebbe trovarsi proprio in quei 300 metri tra il luogo di sparizione e quello di ritrovamento del corpo di Santiago Maldonado.
300 metri in cui si sviluppa una lotta, antica, per risorse naturali come il petrolio, l’acqua e il gas e che dalla colonizzazione di spagnoli e britannici – tra gli inizi del 1500 e la seconda metà del 1800 – e quella, odierna, di multinazionali come Benetton e Ledesma vede la costante repressione dei Mapuche, popolo originario che in queste terre, oggi formalmente divise tra Argentina e Cile, vive da più di 500 anni. Non è un caso che tanto Benetton quanto Carlos Pedro Balquier, proprietario dello zuccherificio Ledesma – e di circa 155.000 ettari di terreno – siano tra i “grandi elettori” del governo guidato da Mauricio Macri, in carica dal dicembre 2015. Sarà proprio la confisca – illegale – delle terre Mapuche a trasformare l’Argentina in una potenza agricola in grado di attirare migranti da ogni parte del mondo, Italia compresa, trasformando i Mapuche in “terroristi”, accusa che, riporta Página 12, dipende «dall’avidità speculativa che stanno assumendo i territori patagonici di fronte all’avanzata delle politiche neoestrattive», facilitata dalla «vulnerabilità delle istituzioni democratiche che si vive in questo momento». Anche questa una storia antica e globale che coinvolge l’Italia nella lotta della “pirateria” del Delta del Niger contro la distruzione socio-ambientale promossa dalle compagnie petrolifere – tra cui naturalmente l’Eni, come dimostra il caso giudiziario Opl245 – o nella valle dell’Omo in Etiopia, dove la salute delle popolazioni indigene e l’ambiente sono minacciate dalle controverse dighe “Gibe”[2].

Il gruppo di Ponzano Veneto – finito brevemente sotto i riflettori dei media per il crollo del ponte Morandi a Genova (14 agosto 2018) e attivo in Argentina fin dal 1991 – si scontra direttamente con le rivendicazioni Mapuche almeno dal 2002, quando Attilio Curiñanco e sua moglie Rosa Rúa Nahuelquir si stabiliscono con i quattro figli in un’area di 535 ettari della tenuta Santa Rosa di Leleque, in un’area – oggi recuperata – che per i Benetton rappresenta una briciola nei 900.000 ettari di terra patagonica da loro posseduta (pari a 44 volte la città di Buenos Aires) e di cui, comunque, ottengono lo sgombro nonostante l’assoluzione della famiglia Curiñanco-Nahuelquir in sede penale. La domanda, a questo punto, è tanto lecita quanto obbligatoria: esiste un interesse diretto del gruppo Benetton nella repressione dei Mapuche e, di conseguenza, nell’omicidio di Santiago Maldonado?

C’è un ruolo dei Benetton nella repressione Mapuche?

È accertato, ad esempio, che pick-up del gruppo siano stati utilizzati dalla Gendarmeria durante l’operazione che porta all’omicidio e che, stando a quanto dichiara in una interpellanza presso la Camera dei deputati argentina Pablo Durán, ministro del governo di Chubut, sarebbe stata diretta dall’interno della tenuta di Leleque dall’avvocato Pablo Noceti, capo di gabinetto del ministero della Sicurezza e noto per aver più volte difeso militari del regime civico-militare oltre che per le sue posizioni “anti-Mapuche”.

Un vero e proprio «Stato nello Stato» in grado di controllare «le entità rurali di Esquel» e il governo di Chubut: Premici delinea così il potere dei Benetton in Argentina. Un potere che il gruppo – nel 2004 escluso dal FTSE4GOOD[3] – gestisce soprattutto grazie alla Compañia de Tierras del Sur Argentino (CTSA[4]), direttamente controllata dalla finanziaria Edizioni Holding e accusata di sversamento di pesticidi tossici nel Río Chubut; alla Sociedad Rural Argentina (SRA), associazione di categoria dei grandi produttori rurali e degli allevatori, che costituisce il fulcro del potere argentino e, dal 2015, il Jeffrey Group, a cui sono affidate la gestione delle crisi mediatiche riguardanti il marchio oltre che la campagna di criminalizzazione dei Mapuche, accusati di essere vicini all’Eta spagnola e alle Farc colombiane da giornali come il «latifondo mediatico» Clarín – a fianco del potere al comando in Argentina fin dai tempi della dittatura civico-militare – e La Nación, tra i più potenti quotidiani del Paese, schieratisi con il governo Macri anche come atto di riverenza per l’abolizione della Ley de Medios, introdotta nel 2009 dalla ex Presidente Cristina Fernandez Kirchner per limitare il potere dei monopoli mediatici.

Se il crimine è di Stato, lo Stato si (auto)assolve

Insomma: nel caso Maldonado non siamo al “malore attivo” di Giuseppe Pinelli ma la strada pare essere quella. Una strada che il mondo, storicamente, già conosce e che si sviluppa in sovrapposizione dell’arrivo (ritorno?) al potere di quel “totalitarismo transnazionale” – la definizione è di Renata Avila[5], avvocatessa guatemalteca e attivista per i diritti digitali – che si sviluppa tra la Russia di Vladimir Putin e l’Ungheria di Viktor Orbán, l’Italia del governo Salvini-Di Maio e la “nuova” America Latina dei Macri e dei Bolsonaro (Brasile).

Una strada in cui l’abuso di potere delle forze dell’ordine «non costituisce reato»: è quello che la 4° Sezione della Corte di Cassazione decide (ricorda?) nel caso di Riccardo Magherini, morto per asfissia durante il suo arresto a Firenze nella notte tra il 2 e 3 marzo 2014 – ma la storia delle torture di Stato in Italia, da “De Tormentis” a Stefano Cucchi, è lunga – ed è quello che tenta il governo Macri con l’ampliamento ai reati di genocidio e lesa maestà della legge n.24390 (nota come “legge 2×1”[6]), permettendo ad oltre 700 membri della dittatura civico-militare, che per Macri stanno subendo una vera e propria «vendetta politica».

Il patto “repressivo-elettorale” del nuovo autoritarismo trasnazionale

E se per alcuni gruppi politici quella contro chi si macchia di genocidio e tortura è una «vendetta politica», quando questi stessi gruppi salgono al potere istituzionale sono più lassisti verso gli abusi delle forze dell’ordine, non fosse altro che spesso gli ambienti militari ricoprono un ruolo determinante nella loro elezione, in una sorta di “patto repressivo-elettorale” che dall’omicidio di Santiago Maldonado a quelli di Giulio Regeni e Stefano Cucchi, dal “malore attivo” di Pinelli alle promozioni di molti artefici della “macelleria messicana” del G8 di Genova del 2001 evidenzia una pericolosa linea di pensiero se si considerano le elezioni degli ultimi tempi, che hanno dato potere a molti di questi gruppi politici: quando lo Stato è imputato lo Stato giudice (auto)assolve.

NOTE:
[1] Búsqueda en Democracia. Diagnóstico sobre la búsqueda de personas entre 1990 y 2013 – Acciones Coordinadas contra la trata, Procuradoría de Trata y Explotación de Personas, 2015;
[2] Diga “Gibe I”, costruita dalla Salini-Impregilo nel 1999 ha provocato lo spostamento forzato di circa 10 mila persone; la magistratura ha indagato sul finanziamento della diga “Gibe II”, parzialmente crollata nel 2011 pochi giorni prima dell’inaugurazione; il bacino artificiale creato dalla sbarramento della diga “Gibe III” ha gradualmente sommerso i territori della Valle dell’Omo, provocando fortissimi danni ad agricoltura e allevamento, cioè le fonti di sostentamento principali delle popolazioni locali, ridurrà inoltre il livello del lago desertico Turkana in Kenya, il più grande del mondo. 500.000 persone saranno colpite dagli effetti di tale progetto. Fonte: Luca Manes “Morire di sete nel Paese delle dighe”, Left – 4 maggio 2018;
[3] Creato nel 2001 dall’Ftse Group con il supporto dell’Ethical Investment Research Services, l’indice FTSE4GOOD include le aziende che si distinguono per gestione e applicazione di criteri ambientali, sociali o di governance come la sostenibilità ambientale, la lotta al cambiamento climatico, il rispetto dei diritti umani e la lotta alla corruzione. Ne sono perciò esclude le industrie del settore del tabacco, delle armi o note per sfruttare i lavoratori. Sotto questo aspetto, negli anni, i Benetton sono stati accusati – tanto in Italia quanto all’estero – di danneggiamento dell’ambiente (Argentina), di sfruttamento del lavoro minorile, soprattutto dopo il crollo del Rana Plaza nel 2013 (Bangladesh) e di aver portato, in Italia, al fallimento di circa 1.000 imprese terziste tra il 1994 e il 1995, con 5.500 posti di lavoro cancellati, come riporta Pericle Camuffo in “United Business of Benetton. Sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia”, Stampa Alternativa, 2008;
[4] In “Quel Sud straniero” lo storico e poeta Ramon Minieri indica proprio la CTSA come una delle grandi società che nel 1876 acquisisce illegalmente un milione di ettari di terre della Patagonia;
[5] Renata Avila, Sara Harrison, Angela Richter, Women, Whistleblowing, Wikileas. A Conversation, O/R Books, New York, London, 2017; p.89;
[6] Entrata in vigore nel 1994 per accelerare i tempi per i detenuti in attesa di giudizio, la legge permette di calcolare come doppi i giorni trascorsi in carcere a partire dal secondo anno di detenzione.