L’alternativa al sistema imperante di sviluppo c’è e dovrebbe puntare di più e subito sull’economia circolare. Al momento, però, le esigenze di questo tipo di economia sostenibile rimangono inascoltate e si limitano alla sola gestione e avvio al recupero dei rifiuti riciclabili tramite i Consorzi, una soluzione che rappresenta in realtà solo una parte, benché virtuosa, di una prospettiva di sviluppo molto più ampia, che dovrebbe partire da nuove regole imposte dalla politica ai sistemi di produzione e di consumo. Così anche questo 2018 si sta per chiudere con l’assenza della politica da un’idea di sviluppo ben fotografata dalla recente ricerca di Ambiente Italia: “L’economia circolare in Italia – la filiera del riciclo asse portante di un’economia senza rifiuti”. Presentata il 29 novembre scorso a Roma come risultato del lavoro del gruppo “Riciclo e recupero” del Kyoto club, la ricerca ha provato a fare il punto sullo stato dell’arte dell’economia circolare nel nostro Paese. L’analisi di Ambiente Italia, commissionata da Conai, per i consorzi nazionali del riciclo degli imballaggi (Cial, Comieco, Corepla, Ricrea) e dal Gruppo Cap, il gestore del servizio idrico della città metropolitana di Milano, sottolinea come “il nostro Paese possa già oggi vantare numerosi punti di forza nel campo dell’economia circolare, ma purtroppo nessuna regia nazionale”.
Un vero peccato non solo per l’ambiente e la sua tutela, ma anche per il mercato del lavoro. Secondo il gruppo del Kyoto club, infatti, spaziando dalle azioni di prevenzione e riuso dei prodotti alle attività manifatturiere basate sui materiali di riciclo, “l’economia circolare italiana appare come un settore che dà lavoro a più di 575 mila persone e che vale oggi 88 miliardi di euro di fatturato e 22 miliardi di valore aggiunto”. Numeri che sostanzialmente equivalgono a quelli di tutto il settore energetico nazionale o di un settore industriale storico come quello dell’industria tessile e non molto distante dal valore aggiunto dell’agricoltura. Secondo i dati raccolti l’economia italiana, il cui vero motore nasce soprattutto della filiera del riciclo, risulta in Europa l’economia più performante in materia di produttività d’uso delle risorse materiali, tanto che per ogni kg di risorsa consumata, il Belpaese “genera a parità di potere d’acquisto 4 € di Pil, contro una media europea di 2,24 Euro e valori tra 2,3 e 3,6 Euro in tutte le altri grandi economie europee”.
Anche il tasso di “circolarità dell’economia”, fornito dalla misura del tasso di utilizzo di materia seconda rispetto alla materia prima, ci pone ai vertici europei, “con il 18,5% di materia seconda sui consumi totali di materia”, una prestazione largamente superiore alla media europea. Tuttavia per il rapporto di Ambiente Italia “il 18,5% di materia seconda è un dato che la dice lunga su quanto la nostra economia e quella dell’intera Unione europea siano lontane da un modello davvero competitivo di economia circolare” che pratichiamo e conosciamo ancora troppo poco. Per il gruppo “Riciclo e recupero” del Kyoto club però, il vero problema è che le buone performance registrate dall’economia circolare nazionale difettano di una regia che possa mettere pienamente a frutto le potenzialità del Paese visto che “sembrano più il risultato di una fortunata combinazione di spinte e necessità dell’economia e di comportamenti personali, piuttosto che l’esito consapevole di politiche e culture pubbliche e private”. Il precedente Governo nazionale aveva iniziato a porre rimedio alla situazione predisponendo il documento “Verso un modello di economia circolare per l’Italia”, con l’obiettivo di fornire un inquadramento generale dell’economia circolare nonché di definire il posizionamento strategico del nostro Paese sul tema. Al momento però, il Governo del cambiamento non sì è ancora impegnato a proseguire su questa strada.
Per Andrea Bianchi, direttore area Politiche industriali di Confindustria questo studio “può rappresentare un ulteriore momento di confronto per evidenziare come sia opportuno porre in essere il giusto contesto normativo, tecnologico-impiantistico ed economico per “chiudere il cerchio”, affinché i nuovi obiettivi definiti a livello europeo e che l’Italia dovrà traguardare, siano uno stimolo a migliorare ulteriormente”. Al momento se in materia di economia circolare l’Italia non è all’anno zero è perché, grazie soprattutto alle pressioni della società civile e dei “comuni ricicloni”, almeno una parte dell’industria italiana è riuscita ad anticipare gli orientamenti decisi a livello comunitario. Per Bianchi, nel Rapporto di Confindustria su “Il ruolo dell’industria italiana nell’economia circolare” presentato lo scorso 31 ottobre emerge che “Il sistema produttivo è pronto a dare il proprio contributo, ma è necessario poter contare su un contesto normativo, tecnologico ed economico che sia di supporto e non di ostacolo al raggiungimento di tali obiettivi”. Oggi per Confindustria se l’Italia vuole valorizzare le proprie eccellenze “circolari” non può non impegnarsi anche politicamente “per abbattere le barriere non tecnologiche; favorire la produzione di beni prodotti in linea con i principi dell’economia circolare e innalzare la capacità impiantistica virtuosa del Paese”. Un obiettivo al momento inascoltato, ma non impossibile, anche per un Governo meno dedito al “cambiamento” di questo.
Articolo di Alessandro Graziadei