Polizia e forze di sicurezza sono convinte che la giovane sia ancora nelle mani dei rapitori, due perché un terzo è stato arrestato, che si ritiene siano dei criminali comuni e che non sia passata di mano, ipotesi inquietante, ai terroristi somali di Al Shabaab. La polizia keniana ritiene di aver chiuso ogni via di fuga verso la Somalia.

Un mese. Un lungo mese nelle mani dei sequestratori. Di Silvia Romano, la giovane cooperante italiana rapita in Kenya il 20 novembre scorso, non si sa nulla o poco. Di certo c’è che è viva, che è tenuta prigioniera nella zona del Tana River, a nord di Malindi, a sud del fiume. Vicino alla cittadina di Garsen. Ma nulla di più.

Euforia e disperazione

In questo lungo mese si sono alternati momenti di euforia, fino ad arrivare alla convinzione che la giovane cooperante sarebbe stata liberata presto, a momenti di angoscia profonda per la sua sorte. Su tutto il silenzio, tranne qualche lampo, come le retate di qualche giorno fa che hanno portato all’arresto di 97 persone nei villaggi di Chira e Bilisa. Ma nulla di più.

Il comandante della polizia della zona costiera del Kenya, Noah Mwivanda, si è limitato a dire che le forze di sicurezza stanno lavorando 24 su 24 “per salvare” la giovane italiana e poi, per giustificare il silenzio intorno agli arresti, che a detta degli abitanti della zona sono stati “brutali”, ha sottolineato che “l’informazione è molto delicata e non può essere divulgata”.

La dinamica del sequestro

Silvia Romano è stata rapita nel villaggio di Chakama, 80 chilometri da Malindi, il 20 novembre intorno alle 20. Chi l’ha portata via cercava lei, era ben armato, ha sparato sugli abitanti del villaggio che hanno tentato di fermarli. Dalle ultime informazioni si è venuto a sapere, inoltre, che l’addetto alla sicurezza serale e notturna del luogo dove abitava la giovane, un masai, quel giorno aveva tardato ad arrivare. Normalmente si presentava tra le 18 e le 19. C’è da chiedersi cosa avrebbe potuto fare un masai armato di machete di fronte a uomini con armi automatiche. L’altra cosa, anche questa riferita dall’inviato di RaiNews, è che un pescatore è stato picchiato a morte in prossimità del fiume Galana, subito dopo il rapimento, perché ha sorpreso i sequestratori con la ragazza.

La caccia all’uomo è partita subito. La polizia ha messo in campo anche i droni per monitorare l’area del rapimento. Il responsabile regionale, Noah Mwivanda, ha spiegato che è “stata lanciata una grande operazione di sicurezza con il coinvolgimento di diversi corpi di polizia e delle forze speciali, incaricati di rintracciare i sospetti che, si ritiene, si nascondano nella foresta”. Uomini affiancati dai servizi segreti italiani.

Esclusa la matrice terroristica

A far escludere che il rapimento sia opera di gruppi affiliati ai terroristi somali di al Shabaab è anche il fatto che non c’è stata alcuna rivendicazione. Già dal quinto giorno dal rapimento sono state diffuse le foto segnaletiche di quelli che si ritiene siano gli autori del sequestro e la polizia ha chiesto l’aiuto della popolazione promettendo una ricompensa in denaro, 6.800 euro, a chi fornisca notizie utili per la liberazione. Questo è servito a trovare tracce dei rapitori, oltre alle motociclette usate dal commando per fuggire e alle treccine di Silvia. Ma quella che sembra una svolta arriva con l’arresto della moglie di uno dei sequestratori grazie alle intercettazioni telefoniche.

La notizia più importante di quei giorni è che “Silvia è viva”. Ai sequestratori sarebbe stata chiesta una prova in vita della giovane per avviare le trattative. Prova che è stata fornita e quindi si sono avviate le trattative. L’ottimismo prevale. “Ci stiamo avvicinando. Tutto indica che abbiamo quasi raggiunto i rapitori”, sostiene Mwivanda. Alle indagini, inoltre, stanno collaborando anche gli anziani dei villaggi e della comunità dei pastori semi-nomadi Orma, che si sono dissociati dal sequestro e hanno lanciato un monito: guai a chi aiuta i rapitori. Aiuto che tuttavia è arrivato.

Entusiasmi che si smorzano rapidamente lungo la giornata di giovedì 29 novembre, quando la liberazione sembrava essere una questione di ore. L’ottimismo si trasforma in “no comment”.  Nell’arco di poche ore si passa dal “Ci siamo, avrete presto buone notizie” al mutismo più assoluto.

Quel giorno tutto diceva che l’annuncio della liberazione sarebbe stato dato nel giro di poche ore e invece tutto è piombato in un silenzio denso di incognite, che dura ancora. Evidentemente qualcosa è andato storto. Poi l’arresto di uno dei rapitori e, qualche giorno prima, quello di un alto ufficiale del Servizio parchi del Kenya. Ciò significa che i sequestratori hanno ricevuto sostegno e protezioni da funzionari corrotti del Kenya, per  spartirsi il bottino.

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