In pochi giorni sono accaduti alcuni fatti nuovi nella ricerca della verità sul sequestro, la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni.
Di fronte all’ennesimo infruttuoso vertice tra le procure di Roma e del Cairo, la prima ha annunciato la prossima iscrizione nel registro degli indagati di una serie di funzionari egiziani, appartenenti all’Agenzia per la sicurezza nazionale e ad altri servizi. Dal dicembre 2017 si chiedeva che a farlo fosse la magistratura egiziana ed è stato infine necessario farlo da parte di quella italiana. Se è presto per parlare di una svolta decisiva, l’accelerazione è certamente positiva.
Va aggiunto che il Presidente della Camera Roberto Fico ha sospeso ogni rapporto col Parlamento del Cairo e il Ministro degli Esteri Moavero ha convocato l’ambasciatore egiziano per manifestare lo scontento dell’Italia per l’assenza di collaborazione.
Il Parlamento egiziano ha reagito scompostamente, ventilando conseguenze.
Occorre dunque stare con mille occhi aperti e ricordare che nelle mani del governo egiziano si trova Amal Fathy, in carcere dalla notte tra il 10 e l’11 maggio, già condannata a due anni per un video in cui, senza incitare in alcun modo ad atti di violenza, denunciava l’incidenza delle molestie sessuali e accusava le autorità del Cairo di non fare nulla per contrastarle. Amal è sotto inchiesta, in ulteriore procedimento nei suoi confronti, per una grottesca accusa di terrorismo.
Amal è la moglie di Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’Ong egiziana che nonostante arresti e intimidazioni continua coraggiosamente a fornire consulenza legale alla famiglia Regeni.
Questo è il motivo per cui è perseguitata. Da qui il timore che dal lato egiziano sia ora considerata un “ostaggio” e che le conseguenze minacciate dal Cairo possano riguardare in primo luogo lei.
L’Italia ha la responsabilità di far sì che ciò non accada.