Ha atteso 12 mesi, la procura di Roma, che la magistratura del Cairo assumesse un’iniziativa nei confronti di un gruppo di funzionari egiziani sospettati del pedinamento e del sequestro di Giulio Regeni (e chissà se anche delle torture e dell’omicidio) e dei successivi depistaggi. Dodici mesi in cui è stato ampiamente esaurito il residuo credito di fiducia in una collaborazione leale ed efficace.
Su parte dei nomi inclusi nella lista di sospettati, consegnata dai magistrati italiani a quelli egiziani nel dicembre 2017, ora la procura di Roma indagherà per proprio conto.
Una mossa necessaria e, si spera, efficace. Che – per quanto venga definita obbligatoria e inevitabile ai sensi dell’ordinamento giuridico italiano – intanto mette le autorità egiziane di fronte a una stretta: collaborare davvero, mettendo a disposizione della procura di Roma gli indagati, o rifiutare. La tattica della perdita di tempo non potrà più funzionare.
Ma di fronte a una stretta si trovano anche le autorità italiane. Che per quello stesso periodo di 12 mesi hanno avuto come obiettivo principale quello di arrivare alla totale normalizzazione dei rapporti con l’Egitto; che sono arrivate persino al punto di invitare il presidente al-Sisi, due settimane fa, alla conferenza di Palermo sulla Libia; che hanno fatto da mero altoparlante all’asserita volontà dell’Egitto di fare piena luce sul sequestro, sulla sparizione, sulla tortura e sull’uccisione di Giulio.
Parole, parole, parole…. La procura di Roma è passata ai fatti. Il presidente della Camera Roberto Fico ha annunciato la sospensione delle relazioni col Parlamento del Cairo. Che farà ora il governo?