Non sarà più l’esito della marcia a fare la differenza: l’esercito di marines schierati per fermare un grande movimento di liberazione – incarnato oggi dagli honduregni, salvadoregni, guatemaltechi in cammino per una marcia teoricamente impossibile – ha già perso: i migranti e chi ha promosso l’accoglienza spontanea in tante località di Honduras, Guatemala e Messico sono testimoni e protagonisti di un processo di trasformazione che va oltre la straordinaria lotta del momento per il diritto a migrare. È accaduto in passato molte volte, ad esempio con la Marcia del sale di Gandhi, ma anche recentemente in Afghanistan, anche se i media erano distratti, attraversato da una marcia per la pace. Quello che accade in Centro America è qualcosa di straordinario che ci riguarda.
Le marce di protesta e di proposta sono state nella storia fra gli strumenti più potenti di cambiamento sociale dal basso. La Marcia del sale guidata da Gandhi in India nel 1930, la Marcia su Washington per il lavoro e la libertà del 1963 chiusa con il celebre discorso di Martin Luther King “I have a dream”, la nostra stessa Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza fra i popoli: sono quelle che prime saltano alla mente e fanno ormai parte di quella che potremmo definire una storia popolare del mondo.
Le marce sono tuttora un potente strumento politico di cambiamento, grazie alla dimostrata capacità di portare alla ribalta temi ignorati dalla politica ufficiale, dai media mainstream, da opinioni pubbliche assuefatte all’agenda imposta dal sistema economico-finanziario che domina il mondo.
Apoyo migrantes Honduras-Guatemala
Pueblo de Guetemala se volcó en apoyo a los migrantes y refugiados que huyen de la violencia y la pobreza en Honduras https://desinformemonos.org.mxVía: Movimiento Migrante Mesoamericano
Posted by Desinformémonos on Friday, 19 October 2018
Solidarietà popolare in Guatemala per l’inizio della carovana dei migranti (20 ottobre)
Di recente, in Afghanistan, un paese in apparenza impossibile, devastato da guerre infinite, annichilito dai lutti e dall’occupazione militare, è stato attraversato da una straordinaria marcia della pace. Sono così venute alla luce risorse sociali inaspettate. La marcia ha mostrato che c’è un Afghanistan in lotta, che vuole dire la sua, che non accetta d’essere preda e vittima di interessi altrui; è un Afghanistan che non si accontenta della democrazia formale, diciamo pure fasulla, calata dal cielo insieme con gli ordigni dei bombardieri. La storia del paese è già cambiata; i cittadini afghani che si sono messi in marcia, c’è da scommetterci, saranno protagonisti della vita pubblica anche nei mesi e anni a venire.
Un’altra marcia è in corso, stavolta nel continente americano: migliaia di persone sono partite dall’Honduras dirette negli Stati Uniti; aspirano a una vita migliore, a un’opportunità da cogliere nel ricco paese nordamericano, storica meta dei migranti di tutto il mondo. Marciano intere famiglie, cercano lavoro e l’occasione di condurre vite normali, come quelle dei cittadini statunitensi, eppure sono descritti dai media, e dalla politica mainstream, con un lessico preso dal mondo militare: si parla di un esercito di migranti, di un’armata. I camminanti vengono additati come una minaccia per i sacri confini della più grande potenza militare del mondo.
Il presidente Trump ha già messo in campo una risposta delle sue, schierando 5.000 marines e descrivendo il popolo in cammino come un’accozzaglia di indesiderabili che mette a rischio la sicurezza del paese, in un’escalation verbale ormai collaudata, tutta spesa sul mercato elettorale della paura. Da questo punto di vista la marcia è un toccasana propagandistico: permette al presidente, alla vigilia di una scadenza elettorale, di esasperare i toni, agitare lo spauracchio dell’invasione e proporsi come comandante in capo pronto a difendere, costi quel che costi, il popolo statunitense.
Non sappiamo come andrà a finire questa storia. I camminanti saranno probabilmente bloccati alla frontiera e dovranno accomodarsi nella tendopoli in allestimento, ma di certo la marcia non sarà un fallimento, qualunque cosa avvenga: che sia la dispersione delle persone o la trasformazione del cammino in un inedito sit-in di massa. Non sarà un fallimento perché le immagini della marcia hanno già fatto il giro del mondo e messo in allarme le cancellerie di numerosi paesi (non solo centro e nordamericani), portando sulla scena pubblica quello che potrebbe diventare un principio ordinatore delle lotte di liberazione di questo inizio di millennio: il diritto di emigrare (e quindi il corrispondente diritto di immigrazione).
È un diritto che ha radici storiche antiche, come ci ricorda Luigi Ferrajoli, e che è servito per affermare il capitalismo nel mondo, nonché, per l’appunto, ciò che intendiamo per civiltà occidentale: il diritto di occupare nuove terre, impiantarvi attività e più tardi cercarvi lavoro, è stato una prerogativa implicita, considerata naturale, per chi sia nato e vissuto nella nostra parte di mondo. Oggi il diritto di migrare è rivendicato dall’altra parte di mondo e si tenta quindi di trasformarlo in delitto. È quanto avviene negli Stati Uniti di Trump, ma anche in quell’Europa che il diritto di emigrare lo ha esercitato per secoli, sia nelle sue élite sia nelle sue masse popolari.