Si è svolta lo scorso 6 novembre, presso lo Spazio Eventi ARTienda de «La Tienda Bottega Equosolidale», a Napoli, l’iniziativa di discussione, confronto e riflessione sul tema «Pasolini e il Sessantotto, Cinquant’anni dopo», che ha visto la partecipazione di due dei co-autori del volume “Cercando Pasolini… Trent’anni dopo” (Edizioni la Città del Sole, Napoli, 2006), alla quale ha portato il saluto l’assessore municipale alla cultura, Luigi Sica, e alla quale è intervenuto, introdotto dagli amici e le amiche della Tienda, un pubblico partecipe e appassionato. Non voleva essere, del resto, e non è stata, una classica «soirée pasoliniana»; voleva essere, e in fondo è stata, una opportunità per riflettere sul Sessantotto, nell’occasione del cinquantennale, i suoi tratti e le sue eredità, la sua cifra e il suo lascito, e farlo attraverso la filigrana dell’opera letteraria e intellettuale di Pasolini che, com’è noto, non esitò a incrociare le lame, della disfida politica e intellettuale, proprio con i fermenti del Sessantotto e con i e le giovani che furono protagonisti della «contestazione».
Il punto di partenza della discussione è stato chiaramente il contesto storico-sociale in cui il Sessantotto, e, con esso, l’opera matura di Pasolini, prende le mosse: l’esaurimento della spinta propulsiva della crescita industriale e del boom economico; l’affermazione di una più solida egemonia di classe, ad opera della borghesia neo-capitalistica; i fermenti di crisi e le ansie di rinnovamento che innervano e attraversano diffusamente la società italiana. Il contesto era cioè quello del neo-capitalismo, della stabilizzazione del dominio della borghesia, dell’avvento, tendenzialmente totalitario, della società dei consumi. Al di là della mera semplificazione terminologica («consumismo») è l’apparato complessivo di questo modello di produzione e di consumo (una vera e propria «società dei consumi») a determinare quella che Pasolini dichiara una vera e propria «mutazione antropologica», anzi, perfino, un «cataclisma antropologico».
In esso non solo si perdono i caratteri sociali e culturali che avevano determinato una lunga stratificazione culturale e che avevano consentito al Paese di mantenere un suo profilo riconoscibile; addirittura si viene affermando una gigantesca, regressiva, trasformazione, una “cifra” della modernità, che Pasolini spesso designa con caratteri ultimativi, umanamente “disperati”, ma non per questo dati una volta per sempre: la «morte delle Lucciole», con la quale designa non tanto la scomparsa di questo o quel fenomeno sociale o culturale, quanto piuttosto la alterazione complessiva del “paesaggio” sociale e culturale dell’Italia del tempo; l’avvento del «Nuovo Fascismo» che il Poeta non esita a mettere a confronto perfino con il fascismo storico, denunciando la sua maggiore pervasività e pericolosità, con l’omologazione e la passivizzazione, e in definitiva con la sua conquista, tanto dei corpi quanto delle coscienze; l’affermazione di una «Nuova Preistoria», moderna, neo-capitalistica, consumistica, della produzione e del consumo seriale, avversa ad una Preistoria Arcaica, quella delle popolazioni e culture del passato, dei cosiddetti «Reami di Bandung».
Il Sessantotto non era stato, ovviamente, solo segno della crisi ed epifania della «contestazione»: vi era un intero “sistema” da contrastare e, possibilmente, da abbattere, non solo, in generale, mettendone in discussione il segno di classe, ma anche, specificamente, denunciandone e disarticolandone il paradigma, statuti e santuari dei saperi e dei poteri, critica e denuncia della presunta neutralità della scienza e della tecnica, lotta contro il padronato e l’autoritarismo, ma, più estensivamente, contro tutte le forme e le pratiche “padronali” e “autoritarie” nello spazio delle relazioni, tanto sulla scena pubblica quanto nella vita privata. Lo sguardo pasoliniano è severo e disincantato: non “rivoluzione”, ma “guerra civile”, di una borghesia che, in fondo, «si rivolta contro sé stessa», dei figli di papà che salgono sulle barricate proprio contro la generazione dei papà, finendo, come scrive, con il «disobbedire, ubbidendo», sottraendo alla lotta proprio il suo strumento più efficace, il suo dispositivo più contundente: non il “ritorno del passato”, ma la «Forza del Passato», un sistema di valori e di relazioni che solo può efficacemente “contrastare” ciò che si voleva “con-testare”. La lezione di Pasolini resta così viva e attualissima: non solo quella di un intellettuale formidabile per il XX secolo e oltre, ma come quella di colui il quale, per dirla con Moravia, ha per primo fatto nascere una poesia civile di sinistra nel nostro Paese: incisiva, lucida e disincantata, rigorosissima e anticonformista.