Sono passati più di 17 anni da quando La Via Campesina, il più grande movimento internazionale di produttori agricoli che coordina centinaia di organizzazioni di contadini, piccoli e medi produttori, lavoratori delle zone rurali, comunità indigene, lavoratori agricoli migranti, donne, giovani e contadini senza terra iniziò la sua battaglia per il riconoscimento e l’applicazione dei diritti dei contadini e dei lavoratori delle zone rurali a livello mondiale.
I primi passi vennero mossi quado la Coordination Paysanne Européenne (Coordinamento contadino europeo – CPE) tra il 1986 e il 2008 decise di riunire diverse organizzazioni di agricoltori provenienti da vari paesi del continente europeo con l’obiettivo di intervenire nelle dinamiche decisionali riguardanti le politiche agricole attuate in Europa e, in particolare, la Politica agricola comune dell’Unione europea (PAC). Nel 1993 il CPE, insieme ad altre organizzazioni contadine, decise di fondare La Via Campesina per poi diventare, nel 2008, il Coordinamento Europeo de La Via Campesina (ECVC).
Ciò che aprì le porte alla possibilità di rivendicare una dichiarazione internazionale per i diritti dei contadini fu la V Conferenza Internazionale de LVC, tenutasi a Maputo, nel 2008. Era poi il 2009 quando La Via Campesina pubblicò la Dichiarazione dei diritti dei contadini e delle contadine in cui vi è una lista di 13 articoli in cui si elencano i diritti fondamentali dei “campesinos”, come il diritto alla vita e a uno standard di vita dignitoso, il diritto alla terra e ai propri territori, il diritto sulle sementi e sulle proprie conoscenze tradizionali. Nel 2012, il governo della Bolivia, sotto la presidenza di Evo Morales, uno dei fondatori della CLOC (Coordinadora Latinoamericana de Organizaciones del Campo), membro de LVC e dell’IPC, presentò la Dichiarazione dei Diritti dei contadini e le altre persone che lavorano nelle zone rurali al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ponendo così le basi al processo che nel 2015, dopo anni di discussioni formali in seno all’UNHCR, riuscì a consolidare il processo che avrebbe portato oggi all’approvazione della Dichiarazione dei diritti dei contadini all’Assemblea Generale dell’ONU.
Il processo è stato lungo e faticoso, molti gli ostacoli posti dai paesi più industrializzati che da sempre hanno mosso diverse critiche alla Dichiarazione, ad esempio riguardo ai soggetti beneficiari della stessa: secondo alcuni infatti la dichiarazione andrebbe a sovrastare diritti di altri gruppi (le aziende? le imprese?), inoltre la nozione di contadino e/o lavoratore delle zone rurali richiama diverse categorie, non solo i contadini nel significato più letterale del termine, ricomprendendo così anche indigeni, comunità locali e/o operai. In realtà ciò non crea confusione giuridica ne pone limitazioni ad altri gruppi della società, la Dichiarazione solo crea un campo di applicazione più vasto in cui è possibile richiamare più beneficiari accomunati da un criterio identificativo comune, ossia la produzione agricola di piccola scala che sia frutto di lavoro proprio o familiare anche se non esclusivo, sia che sia a scopo di sussistenza che a scopo commerciale. I diritti giustamente pretesi dai contadini e dai lavoratori rurali sono classificabili come diritti umani, ne è un esempio il diritto alla terra, alla propria identità culturale e all’autodeterminazione.
Nonostante già da tempo vi è la consapevolezza che la maggior parte della popolazione mondiale è formata da contadini e contadine il tenore di vita dei piccoli produttori agricoli è andato via via peggiorando, vittima di una insostenibile economia globale e della tecnologia sempre più invadente che, invece che supportare l’essere umano consentendogli di migliorare le proprie condizioni di vita, ne mette a repentaglio la salute stessa.
È un dato di fatto che i contadini, le aziende familiari e i piccoli produttori producono il 70% del cibo consumato annualmente e tale cifra raggiunge l’80% nei paesi in via di sviluppo. Non tutelare l’agricoltura contadina o considerarla come una mera attività economica è un grande errore che ad oggi ha già causato danni difficilmente rimediabili: parliamo del disboscamento continuo di foreste per far spazio alle monocolture o degli enormi quantitativi di prodotti chimici velenosi anche per l’essere umano che, essendo utilizzati in agricoltura ed allevamento, si disperdono poi nell’ambiente in un circolo vizioso che è giunto fino agli oceani, acidificandone le acque e uccidendo flora e fauna marina fondamentali per la vita dell’uomo.
Ogni essere umano ha la necessità di nutrirsi in modo quantitativamente, qualitativamente e culturalmente adatto, questo è il diritto al cibo. Per questo è fondamentale quanto urgente capire che l’agricoltura contadina non è un’attività economica ma è la chiave per assicurare la sovranità alimentare al mondo intero; se chi lavora la terra e i suoi frutti non può vantare pieno benessere tale situazione si rivolterà contro il genere umano e, in realtà, ciò sta già accadendo. Allo stato attuale i contadini e i piccoli produttori soffrono, a seconda dei contesti in cui vivono e lavorano, ingiustizie che li vedono vittime di sottrazioni dei terreni, limitazioni all’utilizzo delle proprie sementi e delle proprie conoscenze tradizionali, mercati distorti che sviliscono il valore della terra e di chi la lavora, continua esposizione ad agenti chimici velenosi per l’essere umano e l’ambiente. È solo una breve lista delle continue violazioni perpetrate nei confronti di contadini, lavoratori delle zone rurali e popolazioni indigene al solo fine capitalista del grande mercato globale. Negli ultimi anni sono poi sorte nuove minacce dalle tecnologie genetiche più avanzate, proposte come soluzione alla crisi alimentare mondiale nonostante i continui allarmi lanciati da associazioni, scienziati, ricercatori ed esperti di vari settori che hanno messo in guardia il potenziale dannoso del gene editing e del gene drive sulla salute umana, sull’agricoltura e non solo. In questi giorni, inoltre, alla COP 14 della Convenzione sulla Biodiversità (CBD) si sta parlando anche di DSI, Digital Sequence Information, ossia la possibilità di catalogare e archiviare le informazioni contenute nelle risorse genetiche e renderle disponibili tramite un database opensource. Ciò darebbe la possibilità di creare varietà poi brevettabili, inibendo di fatto il diritto di contadini e popolazioni indigene di utilizzare liberamente le proprie sementi e causando, inoltre, ulteriore perdita della biodiversità dato che verrebbero imposte sul mercato le varietà brevettate.
Sono necessarie tutele per i contadini di tutto il mondo e serve che venga riconosciuto a livello formale il ruolo fondamentale che svolgono per lo sviluppo economico, per la produzione degli alimenti, per la conservazione della biodiversità, del suolo, della cultura e della vita di tutti. Il ruolo dei contadini non può e non deve essere circoscritto a quello dei semplici produttori di merce senza nessuna voce nei processi decisionali e alla mercé delle politiche economiche nazionali e internazionali dei governi.
Articolo di Mariapaola Boselli per Centro Internazionale Crocevia