Molte persone sono convinte che per cambiare le cose che non ci piacciono nella società si debba fare politica, cioè partecipare a qualche partito politico e cercare di arrivare al potere. Da lì poi si potranno cambiare le cose.
Molte persone credono che quello che ho scritto nella frase precedente sia realistico. Sembra quasi una affermazione logica e, chissà, forse in qualche momento della storia ha pure funzionato. Da una cinquantina di anni, da quando sono nata, mi sembra che invece le cose siano andate in modo alquanto diverso. Alcuni signori che, attraverso il loro potere mediatico e/o economico, hanno potuto accedere rapidamente al potere politico, hanno cambiato le cose che non piacevano loro, certo. Ma non è ciò a cui mi riferivo nell’incipit di questo articolo.
La partecipazione politica è intesa generalmente come partecipazione a qualche partito politico, ma questa è certamente una accezione riduttiva. Riduce la politica alla battaglia degli articoli di legge in Parlamento e agli eloqui spesso incomprensibili nei dibattiti televisivi. Quelli come me, per esempio, che detestano il linguaggio legale e non si sentono affini a nessuno dei partiti esistenti, come fanno? Quelli come me, che osservano la crisi del meccanismo della rappresentatività, cosa possono fare?
“…all’epoca in cui fu introdotto il suffragio universale, si pensava che ci fosse un solo atto, per così dire, tra l’elezione dei rappresentanti del popolo e la conclusione del loro mandato. Ma, con il passare del tempo, si è visto chiaramente che oltre a questo primo atto con il quale i molti scelgono i pochi, ne esiste un secondo con il quale questi pochi tradiscono i molti, facendosi portatori di interessi estranei al mandato ricevuto. E questo male si trova ormai in incubazione nei partiti politici che sono ridotti a dei puri vertici separati dalle necessità del popolo. Ormai, all’interno della macchina dei partiti, i grandi interessi finanziano i candidati e dettano la politica che questi dovranno portare avanti. Tutto ciò evidenzia una profonda crisi nel concetto e nell’espressione pratica della rappresentatività.”(1)
Insomma, chi vuole avere influenza sulle decisioni senza dovere entrare a far parte della macchina burocratica, può farlo?
La risposta è: si!
Un buon cittadino non è, a mio avviso, colui che fa vita privata, che si occupa unicamente dei suoi affari e interessi e delega totalmente ai politici le decisioni sulla res publica. Un buon cittadino non è colui che obbedisce acriticamente alle leggi e denuncia il vicino di nascosto. Si possono influenzare le scelte politiche e le decisioni di chi governa con la partecipazione attiva in gruppi di opinione, comitati, associazioni e quanto altro la democrazia preveda. Si può controllare l’operato degli “eletti” – quelli che sono stati eletti – cercando e diffondendo le informazioni adeguate da fonti adeguate, nell’era dei social network non è nemmeno tanto difficile. Dove la cittadinanza è sveglia, attiva e reattiva è più difficile l’infiltrazione di stampo mafioso, o comunque il suo operato è contenuto. Quando la gente non si volta dall’altra parte e denuncia pubblicamente le ingiustizie e i soprusi, anche chi detiene il potere legittimato dal voto, deve porsi delle domande. Dall’esterno della macchina burocratica si può fare molto, da fuori si può fare cultura, creare coscienza e stimolare l’avanzamento della civiltà. Poi arriveranno anche le leggi.
Se i cittadini fanno i buoni cittadini e non i buoni sudditi la repubblica rischia meno di tornare monarchia e la democrazia di trasformarsi in dittatura.
- Silo. Lettere ai miei amici. Sesta lettera. Ed Multimage 2006 pag. 68