“Per tenere attuali e comprensibili alle nuove generazioni le parole di tutti coloro che hanno testimoniato la forza della pace e della nonviolenza, vogliamo ribadire che non è un giorno di festa ma di lutto”. Una riflessione dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere
Notiamo che il clima entro cui si sono svolte da noi è stato quello delle “celebrazioni”, da una parte, e dall’altra quello della ripresa della retorica nazionalista e militare che, a fatica, era stata mitigata negli scorsi decenni dal lavoro di pochi storici preparati. Si è tornati a una visione patriottica della storia, da cui sono scomparsi del tutto gli episodi scomodi, veri tabù, del pacifismo, della renitenza di massa e della diserzione, degli ammutinamenti e della fraternizzazione con i nemici, della demenziale incompetenza dei comandi, del generale e crescente odio per la guerra. Si è compattata l’unanimità intorno alla “sacralità” del “sacrificio” dei caduti e dell’eroismo dei combattenti della Grande Guerra, in un odierno rilancio di un’“identità nazionale” in verità assai problematico.
OPAL, l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere, che ha tra i suoi compiti principali quello di promuovere e diffondere la cultura della pace, ritiene che nelle celebrazioni si sia dato troppo rilievo non solo al punto di vista “nazionale” (la guerra come cemento degli italiani e realizzazione del risorgimento) ma soprattutto alla cultura della guerra (le nuove armi, la guerra di trincea ecc.). Non si è dato abbastanza rilievo, invece, alle cause di questa guerra, che ha rappresentato l’entrata dell’umanità nella modernità, con il suo corredo di inutili stragi di massa, di esodi di popolazioni civili, di genocidi, di “pulizie etniche” e di un fallimento della “pace” post-bellica i cui effetti si sono protratti per tutto il Novecento, e si ripresentano oggi.
Tra le cause, una delle principali fu la volontà bellica di tutto il ceto affaristico e imprenditoriale, capace di mobilitare risorse e propaganda anche quando la classe politica era decisamente schierata su posizioni neutralistiche. Durante la guerra, gli industriali delle armi furono i maggiori beneficiari della carneficina che falciò soprattutto contadini ed ex contadini di recente inurbati per andare a lavorare nelle fabbriche, anche in quelle poi militarizzate. Si costruirono allora ingenti fortune industriali, anche in Italia (dagli Agnelli ai Perrone dell’Ansaldo, ai Bombrini e ai Parodi-Delfino della BPD, i Donegani della Montecatini, i Romeo dell’Alfa Romeo, i Caproni e i Macchi della nascente aviazione ecc.) e anche a Brescia (dai Beretta ai Franchi, dagli Gnutti ai Morselli della Caffaro). Una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra accertò “guadagni illeciti” ingenti e avrebbe recuperato la gigantesca cifra di 340 milioni di lire di “sovraprofitti” se non fosse stata prontamente soppressa da Mussolini due giorni dopo aver ottenuto la fiducia dal parlamento, nel novembre 1922.
Nell’imminenza della 2a edizione del Festival della Pace di Brescia, dedicato quest’anno al tema della nonviolenza, vogliamo ricordare il coraggio di Giacomo Matteotti che nel 1915 sostenne con veemenza le ragioni dell’antimilitarismo e dell’internazionalismo, e che fu condannato per disfattismo a tre anni di confino scontati a Campo Inglese (Messina). Le sue parole contro la guerra come violenza sono state poi riprese da Aldo Capitini, di cui si sono celebrati in questi giorni i cinquant’anni dalla scomparsa, nel suo Antifascismo tra i giovani (1966).
Per tenere attuali e comprensibili alle nuove generazioni le parole di Matteotti, di Capitini e di tutti coloro che hanno testimoniato la forza della pace e della nonviolenza, vogliamo ribadire che il 4 novembre 2018 non è un giorno di festa ma di lutto.