Siamo un Paese che spende 3 miliardi di euro all’anno per l’esecuzione della pena, più di tutti gli altri in Europa, ma siamo il Paese con più alto tasso di recidiva di tutta Europa. Credo che un carcere che accoglie chi infrange la legge e restituisce delinquenti non garantisca sicurezza. Per questo ho sempre affermato che il carcere è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto, che nelle nostre “Patrie Galere” due più due fa cinque, che nella stragrande maggioranza dei casi quando si finisce di scontare una pena si esce dalla prigione peggiori di quando si è entrati e che il miglior carcere è quello che non costruiranno mai. Quando però qualcuno mi domanda qual è stata la galera più vivibile dove sono stato nei miei 35 anni di carcere (di cui 27 anni ininterrottamente), non posso non rispondere che è quello di Padova, grazie soprattutto alla mia partecipazione alla redazione di “Ristretti Orizzonti”. Posso affermare che se io ora sono una persona diversa è grazie anche alle attività che ho svolto in quella redazione coordinata dalla giornalista Ornella Favero, una delle poche che ha tentato di informare l’opinione pubblica che una pena che fa male fa più danni alla società che a chi la sconta.
Sono ormai due anni che manco dal carcere di Padova e da Ristretti Orizzonti e ho saputo che molte delle attività che svolgeva la redazione sono state ridotte ai minimi termini e ridimensionate, soprattutto quelle di portare dei ragazzi in carcere ad ascoltare le storie dei cattivi. Mi ricordo che venivano intere classi di scuola superiore (migliaia di studenti l’anno) e ascoltavano tre testimonianze fatte da detenuti, con dentro la situazione familiare, sociale e ambientale di dove erano nati e dove erano maturate le loro scelte devianti e criminali, senza però per questo trovare nessuna giustificazione o attenuante. Poi tutto il gruppo dei detenuti della redazione di “Ristretti Orizzonti”, guidato e coordinato dai volontari, rispondeva alle domande dei ragazzi studenti. Non era facile per i detenuti raccontare il peggio della loro vita, ma penso che era un modo per prendere le distanze dal proprio passato e tentare di riconciliarsi con sé stessi. Mi ricordo che guardare gli sguardi innocenti dei ragazzi aiutava molto ciascuno di noi a capire quali erano state le ragioni dell’odio, della rabbia, della violenza delle nostre scelte devianti e criminali, più di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla guardando le pareti di una cella. Per questo adesso non capisco perché questo importantissimo progetto rieducativo e socializzante è stato ridimensionato a due soli incontri mensili. O, meglio, capisco: il progetto “Scuola-Carcere” funziona e ho visto in questi anni che in carcere quello che funziona davvero spesso va distrutto, forse perché la prigione deve creare recidiva e delinquenti per fare vincere le elezioni a quei partiti che cavalcano l’emergenza criminalità.
Una volta un mio compagno di cella mi ha raccontato che la più grande sofferenza per lui non erano stati gli anni di carcere da scontare, ma rispondere alle domande degli studenti che venivano alla redazione di “Ristretti Orizzonte” perché lo facevano sentire colpevole.
Lancio un appello a tutti quelli che nell’arco di vent’anni hanno frequentato e conosciuto la redazione di “Ristretti Orizzonti” a difendere questa attività nel carcere di Padova, una delle poche realtà che funzionano nell’inferno delle nostre “Patrie Galere” e che fanno abbassare la recidiva, a favore della collettività.