La confessione lega chi la pronuncia a una verità. Non solo colui che confessa si qualifica in modo diverso rispetto a quanto afferma: e allora il ladro diventa capace di risarcimento, il violento di riparazione, il peccatore di pentimento. Ma la confessione istituisce anche un rapporto di dipendenza tra il soggetto che la verbalizza e il soggetto, i soggetti che la ascoltano.
La deposizione di Francesco Tedesco, uno dei carabinieri indagati nel processo per l’omicidio di Stefano Cucchi, mostra un rapporto di dipendenza inedito. Prima dell’11 ottobre del 2018 la verità sulla morte di Cucchi era appannaggio esclusivo di un discorso, diremmo privato, bisbigliato nei locali del comando dei carabinieri della compagnia Roma Casilina. Un discorso costruito all’interno di una logica di omissioni, occultamenti, depistaggi cui i carabinieri autori del pestaggio sono stati sempre fedeli, vincolandosi a essa in un patto che insieme legava loro stessi e quella parte dell’Arma che con il proprio silenzio rinnovava l’insabbiamento.

«Quando dovevo essere sentito dal pm, il maresciallo Mandolini non mi minacciò esplicitamente ma aveva un modo di fare che non mi faceva stare sereno. Mentre ci recavamo a piazzale Clodio, io avevo capito che non potevo dire la verità e gli chiesi cosa avrei dovuto dire al pm anche perché era la prima volta che venivo sentito personalmente da un pm e lui rispose: “Tu gli devi dire che stava bene, quello che è successo, che stava bene, che non è successo niente….capisci a me, poi ci penso io, non ti preoccupare”». Tedesco, dopo nove anni, con la sua confessione perfora il muro di quella grammatica liturgica di protezione tra colleghi, recide il legame delle omertà condivise e inaugura una nuova relazione che impegna a compiere un percorso di trasformazione pubblico. Sottraendosi alla solidarietà con quel piccolo gruppo di militari e graduati dell’Arma responsabili dell’abuso, innesca un nuovo rapporto di dipendenza, stavolta con la comunità tutta. Quella comunità che da quei carabinieri per mandato deve essere protetta, quella comunità che in questi anni ha ostinatamente tenuto lo sguardo fermo sulle sofferenze di un corpo consegnato allo Stato, quella comunità che si è costituita intorno alla famiglia Cucchi e ne ha reduplicato la richiesta di giustizia e verità. Che il pestaggio avvenuto sia testimoniato e inscritto su un documento giudiziario restituisce piena responsabilità non soltanto ai suoi esecutori diretti e ai suoi complici, ma chiama in causa tutti coloro che si sono pronunciati sulla vicenda, anche e soprattutto chi ha denigrato, calunniato, offeso.

«Fu un’azione combinata. Cucchi e Di Bernardo ricominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi, per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con un schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. Il giovane battè anche la testa, in modo violento, ricordo di aver sentito il rumore».

Scandire in un’aula di tribunale la successione dei colpi inferti al corpo di Stefano Cucchi non rende giustizia a nessuna di quelle lesioni e non rende relativa nessuna parte di quel dolore. Quello che possiamo pretendere dalla confessione di Tedesco è allora che approfondisca, estenui, insista il suo potere di incisione materiale, di azione concreta, di condotta tangibile. La chiamata alla responsabilità che questa confessione porta con sé si allarga a tutti noi, si restituisce come un obbligo che deve investire interamente la nostra struttura sociale e lo Stato dei diritti. Ilaria Cucchi ha parlato del crollo di un muro: e il muro è crollato non in un momento puntuale, piuttosto arrivare alla verità è stato un sentiero di lotte, uno smottamento continuo, un lavorio quotidiano e ostinato.

di Federica Graziani e Ludovico Griguoli Lanza

 

Qui l’articolo originale, ripubblicato per gentile concessione degli Autori