Un giovane studente, Vladislav Roslyakov, di diciott’anni appena, ha fatto esplodere un ordigno all’interno dell’Istituto tecnico professionale di Kerch, in Crimea, uccidendo almeno diciotto persone e ferendone cinquanta. Le cause del gesto non sono note. La polizia ha dichiarato che il giovane, dopo aver piazzato l’ordigno presso i locali della mensa al primo piano dell’edificio, si sarebbe tolto la vita. La presenza di alcuni cadaveri uccisi a colpi di arma da fuoco – in prima battuta negata dalle autorità locali, poi confermata – rende meno chiaro lo svolgersi degli eventi: è possibile che il giovane fosse armato e abbia aperto il fuoco sui compagni dopo aver piazzato l’ordigno, come è possibile che quegli spari siano di altra origine. L’anti-terrorismo russo ha dichiarato che potrebbe esserci più di un attentatore. Alcuni testimoni pare abbiano confermato la presenza di più uomini armati e mascherati. L’ordigno non è ancora stato identificato.
In un primo momento l’esplosione è stata attribuita a una fuga di gas, solo più tardi si è compresa la terribile realtà. Eventi di questo tipo – tristemente frequenti negli Stati Uniti – non sono mai avvenuti in Russia. La città di Kerch è il punto di partenza del ponte che collega la Crimea alla Russia, recentemente ultimato dopo anni di intensi lavori. Il ponte collega, fisicamente e simbolicamente, la penisola di Crimea – illegalmente annessa dai russi nel 2014 – al resto del paese. Secondo le autorità russe, proprio la natura simbolica del ponte lo rende un bersaglio ambito dai terroristi. Per difendere il ponte, i russi bloccano da mesi l’accesso navale al mar d’Azov rendendolo di fatto un “lago” russo a scapito dei porti ucraini – tra cui Mariupol – chiusi nella morsa di Mosca.
Ma se terrorismo dovesse essere, di quale matrice? L’attacco è stato paragonato a quello avvenuto a Beslan, in Ossezia settentrionale, nel 2004. Allora i morti furono 334, tra cui 186 bambini, uccisi per mano delle milizie islamiste guidate da Shamil Basaev, leader dei fondamentalisti islamici che avevano preso in mano le sorti della guerra cecena trasformandola in una guerra non per l’indipendenza della piccola repubblica, ma per la costituzione di un grande emirato caucasico. La presa del potere delle frange islamiste all’interno della leadership cecena giocò a legittimare l’intervento di Mosca contro i ceceni.
In Crimea esiste un’altra minoranza musulmana oppressa, quella tatara. I tatari hanno fin da subito opposto resistenza all’invasione russa e per questo sono stati duramente colpiti: la loro autonomia politica e religiosa è stata cancellata, i loro leader sono stati incarcerati, i loro beni confiscati, le radio e i giornali sono stati chiusi. Finora la resistenza tatara si è limitata a poche azioni dimostrative tra cui spicca l’abbattimento di alcuni tralicci della corrente elettrica che, nel 2015, ha lasciato la Crimea al buio per giorni senza che Mosca riuscisse a riprendere il controllo della situazione. Se l’attentato di oggi venisse ricondotto ai tatari, si aprirebbe uno scenario inquietante sia per il salto di qualità del terrorismo tataro, sia per le brutali repressioni che ne seguirebbero con la scusa della lotta al terrorismo.
Che questo attacco possa essere di matrice terroristica appare tuttavia poco probabile, certamente poco sensato, soprattutto perché diretto non a un obiettivo strategico o simbolico, ma a dei giovani in una scuola per mano di un coetaneo. Andrebbero però ricostruite le cause psicologiche e sociali del gesto in una regione dove la vita è difficile, il disagio giovanile molto diffuso, la repressione all’ordine del giorno.
Terrorismo o follia? Una pagina ancora da scrivere che, tuttavia, pesca nel torbido di una società traumatizzata e agitata da quattro anni di annessione non del tutto digerita.