Partita dalla seconda città honduregna per popolazione, dopo la capitale Tegucigalpa, la Carovana ha attraversato Città del Guatemala e Tecún Umán sotto la pioggia ed il sole, dormendo per la strada e mangiando ciò che gli abitanti guatemaltechi decidevano di offrire loro.
Come spiegano i giovani che scelgono di concedere interviste ai giornalisti locali e stranieri, a differenza dei migranti, che cercano di passare inosservati, la volontà questa volta è quella di farsi notare così da poter raccontare e far conoscere la situazione.
La fuga acquista quindi un significato ancor maggiore: una vera e propria manifestazione collettiva.
Lo urlano in slogan le migliaia di persone che ne fanno parte: “Non si può vivere se si è poveri in America Centrale!”
Avanzano insieme donne e uomini, giovani ed anziani, con passo deciso.
Marciano verso la terra del vecchio “sogno americano”.
È la forza della massa che muove le oltre settemila persone in marcia.
Si lasciano alle spalle disoccupazione, violenze, povertà e conflitti civili che da anni insanguinano i paesi d’origine.
Marciano nella speranza di migliorare il proprio futuro, andando proprio verso quel modello di società che, negli anni, ha causato impoverimento, violenze e repressione in tutta l’America centro-meridionale.
La carovana si trova ora in Chiapas, ed attraverso i reportage di Radio Zapatista possiamo seguire il lento avanzare attraverso il primo stato messicano dalla frontiera.
DA DOVE VENGONO LE DONNE E UOMINI DI OGNI ETA’ CHE COMPONGONO LA CAROVANA?
Con il crollo dei cartelli colombiani degli anni 2000 la produzione di droghe dirette negli Stati Uniti si è spostata verso nord, in Messico ma non solo.
Uno spostamento che ha segnato in profondità quello che viene chiamato “centroamerica”.
I profitti delle narcotraffico, garantiti dall’ipocrisia del proibizionismo ed in mano a poteri legali ed illegali, producono un’immensa quantità di denaro, che finisce nei scintillanti palazzi della finanza globale, devastando con la violenza del controllo del territorio intere comunità.
Una guerra non dichiarata che assieme ad una situazione economica e sociale drammatica ha creato un clima invivibile che, spesso, non viene raccontato.
In una sistema di comunicazione dove la semplificazione la fa da padrona è importante analizzare le diverse, e più specifiche, cause territoriali che hanno portato migliaia di persone a riversarsi nei territori messicani al di là del ponte Rodolfo Robles, verso Ciudad Hidalgo.
DONNE E UOMINI HONDUREGNI
A partire da chi compone in maniera numericamente maggiore la marcia troviamo cittadini honduregni che scappano da cause che hanno radici profonde, legate alla povertà e alle disuguaglianze endemiche nel paese, assieme all’attuale crisi politica del governo di Juan Orlando Hernández.
Secondo Rodolfo Pastor, membro della formazione di sinistra Partido Libre, una delle principali cause dell’esodo è senza dubbio la situazione politica che si respira in territorio honduregno.
A partire dalle elezioni del 2017, contestate dalle principali forze di opposizione per irregolarità, l’attuale governo ha creato, nel suo secondo mandato, un clima degno di un “regime autoritario”. In tutto questo, spiega Pastor, non è mancata l’ingerenza da parte degli Stati Uniti con il principale scopo di contenere l’aumento di immigrazione dell’America centrale.
Lo scorso 11 ottobre lo stesso Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha invitato a Washington i presidenti di Guatemala e Honduras, il vicepresidente del Salvador e il ministro degli esteri messicano, Luis Videgaray Caso per dare seguiro all’Alliance for Prosperity, il piano di sviluppo economico del centro America avviato nel 2014.
“Il nemico non è più il comunismo, ma la guerra contro la migrazione e la droga, dove l’America centrale è un passaggio obbligato dal produttore al consumatore del nord“, riassume Pastor, che si definisce “Revolucionario, latinoamericano, ciudadano del Mundo”, e come sempre in nome della “guerra alla droga” tutto sembra essere concesso.
In un paese che conta quattro milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, i livelli di violenza sociale, le uccisioni di giornalisti, ecologisti, campesinos e attivisti come Berta Cáceres, e
le violazioni dei diritti umani sono aumentate in una cronologia del deterioramento.
Come racconta Roberta Zuini de L’Espresso, dal colpo di Stato militare del 2009 sono aumentati gli scontri tra la popolazione e l’esercito, continuano le sparizioni forzate, gli omicidi politici e le lotte per il diritto alla terra in un clima di silenzio causato dalle pressioni che il governo di Tegucigalpa da anni mette in atto nei confronti dei mezzi di informazione.
L’Honduras, definito dai molti NarcoStato, è il paese che riesce a procurare l’80% della cocaina che complessivamente arriva negli Stati Uniti dall’America centrale. Grazie ad una fitta rete di tunnel scavati dai cartelli, infatti, l’oro bianco transita tra Honduras e Nicaragua prima di arrivare nei territori controllati dai narcos messicani.
Secondo il giornalista Felipe Molina, la cui determinazione gli è costata il venire gambizzato ad un semaforo, i telegiornali honduregni aprono ogni mattina con “immagini raccapriccianti di rapine, estorsioni e regolamenti di conti tra bande”.
La micro criminalità, in questo paese, si mischia con la macro illegalità creando un clima di tensione con effetti invivibili: coprifuoco, divieto di attraversare alcune zone della città, obbligo di viaggiare coi finestrini alzati quando si è in auto.
Le liste nere del governo e delle gang spesso contano gli stessi nomi in una omogeneità di intenti che spaventa le associazioni di società civile
Un insieme di fattori che hanno spinto migliaia di cittadini a spostarsi in massa dalla capitale e dalle zone più pericolose e povere del paese verso un futuro migliore. [1]
DONNE E UOMINI SALVADOREGNI
Sono “vecchi” cittadini americani i giovani delle crudeli gang che insanguinano i territori del Salvador, ma che sono attive sul panorama internazionale.
Nate nella californiana Los Angeles, la Mara Salvatrucha (MS13) e la Barrio 18 (LA18) sono due tra le pandillas più violente.
La loro storia comincia nei ghetti negli anni 80, quando le seconde generazioni di giovani latinoamericani iniziarono a strutturarsi attorno ad attività illegali nei ghetti della West Coast.
Come spiegato nel libro Crònicas Negras all’inizio degli anni novanta Bush decise di liberarsi di quello che considerava un peso in eccesso. Durante la sua amministrazione ha avuto luogo una delle ondate di deportazioni di “indocumentados” più grande degli ultimi decenni e, per liberare un po’ le carceri americane, istituì un piano che riportò nei paesi d’origine i giovani centroamericani che erano entrati nelle pandillas del sud California e che erano cresciuti senza avere nessun legame con il paese dei genitori.
Arrivati in suolo salvadoregno ai giovani non restava altro che cercare un luogo dove poter stare, come lo era Parque Libertad, la principale piazza nella città di Santa Ana, in cui i nuovi arrivati avevano l’opportunità di incontrarsi con conoscenti lontani.
Negli aerei dei deportati non viaggiavano solo membri della Barrio 18, una delle più vecchie pandilla di Los Angeles, la cui storia comincia già agli inizi degli anni cinquanta, ma anche gli avversari della Mara Salvatrucha, gang che ha avuto una ascesa vertiginosa agli inizi degli anni novanta.
Tornate in Salvador le due bande si sono da subito scontrate per il controllo del territorio e delle principali attività illegali della zona.
Tutto ciò ha reso quasi impossibile la vita nel paese centramericano dove da molti anni è in corso una vera e propria guerra civile che non risparmia nessuno.
Il tasso di omicidi nella zona è tra i più alti al mondo e i cittadini si sono così abituati al clima di violenza incessante che ormai, per i giornali locali, fanno notizia solo quei pochi giorni l’anno dove nel paese non vengono compiuti omicidi. Lo è stato l’11 ottobre scorso, prima giornata priva di omicidi dopo 716 giorni.
Come in Honduras, nel nome della lotta alla criminalità, l’esercito risponde con posti di blocco, città militarizzate e repressione violenta. [2]
La violenza senza fine che colpisce il Salvador ha già portato intere comunità a scappare dal Paese. Intere aree si sono quindi svuotate lasciando i quartieri in mano alle gang il cui principale ruolo è quello di fare da intermediari tra i narcotrafficanti e i circuiti di distribuzione nord americani ed europei.
Secondo i giornalisti di El Faro, ripresi dal blog italiano Le Nius, sono circa quattro mila all’anno i cittadini che cercano rifugio nelle Americhe o in Europa. I principali paesi di destinazione sono Messico, Costa Rica, Stati Uniti, ma anche l’Italia.
La particolarità delle pandillas salvadoregne sta nel fatto che non sono strutturate secondo i consueti canoni delle mafie ricche. I guadagni annuali della Mara Salvatrucha, ad esempio, si aggirano intorno ai 31 milioni di dollari, non una grande cifra se si pensa al giro di affari che orbita attorno al narcotraffico.
La struttura orizzontale di queste gang non fa altro che aumentarne il consenso e l’affiliazione all’interno di specifiche zone dove il controllo delle maras è radicato e capillare.
Ad oggi sono circa 60 mila gli affiliati alle due più grandi pandillas, circa il 9% dell’intera popolazione salvadoregna.
Riconoscibili dai tatuaggi sul volto, dove sono ben visibili le lettere cubitali della gang di appartenenza, i giovani che decidono di entrare nelle maras devono attraversare un violento rituale di affiliazione: un lungo pestaggio per gli uomini che devono subìre in silenzio per potersi considerare parte dell’organizzazione. Per le donne la prova consiste nell’arrivare a sopravvivere a uno stupro di gruppo. Sono queste le dure regole della criminalità del Salvador che non accetta ripensamenti: o sei dentro o muori.
Non sono solo le violenze perpetrate dalle gang a spaventare i cittadini, ma anche la risposta di polizia ed esercito. Sotto il controllo del governo le forze dell’ordine hanno messo in atto una vera e propria missione di repressione violenta per ostacolare le attività delle gang, che tengono sotto controllo il 70% dei commercianti e delle aziende del Salvador.
Nonostante gli omicidi dal 2016 ad oggi siano comunque calati del 20% la popolazione non si sente sicura, ne tantomeno realmente protetta vista la corruzione dilagante. Secondo una inchiesta di El Faro la polizia ha più volte messo in scena finte sparatorie al fine di coprire i suoi soprusi. La stessa sezione per i diritti umani della procura della capitale sta indagando su ben 31 casi di presunti omicidi sommari non giustificati da parte della polizia.
La povertà dilagante non favorisce certo la fine di questa difficile situazione ed ecco quindi perché moltissimi cittadini salvadoregni si sono uniti alla Carovana partita dall’Honduras sotto il grido “uniti si può”.
DONNE E UOMINI DEL GUATEMALA
L’ultimo paese che la Carovana partita da San Pedro Sula ha attraversato è il Guatemala. Passando per la capitale e la città di Tecún Umán la Carovana ha accolto al suo interno anche molti cittadini guatemaltechi che hanno scelto di aggregarsi al lungo serpentone di profughi, come loro stessi si definiscono, nella speranza di entrare negli Stati Uniti così da costruirsi una vita migliore.
Anche il Guatemala è un paese messo in ginocchio dalle rotte della coca e dall’instabilità politica. Per un periodo i narcotrafficanti guatemaltechi avevano stipulato un patto reciproco per evitare la guerra tra bande; poche erano le “pecore nere” che provavano a rompere il grande accordo.
Poi gruppi di narcos finirono per essere arruolati dal guppo Los Zetas, uno dei più violenti “carteles” messicani.
Ancor prima lo stesso El Chapo spostò parte delle sue attività in Guatemala quando la situazione in Messico mise in pericolo il suo impero.
Oggi i Los Zetas hanno il controllo su maggior parte del suolo guatemalteco, e dove ciò non avviene, vi sono vere e proprie zone assediate per il controllo del territorio.
Come per l’Honduras e il Salvador, anche il Guatemala subisce senza reali soluzioni la fuga della popolazione che decide di lasciare il territorio in nome di più sicurezza e di una vita dignitosa. L’unica risposta messa in campo dal governo di Limmy Morales è la militarizzazione della frontiera di Agua Caliente con l’Honduras, attraverso fili spinati elettrificati e franchi tiratori.
TRA MESSICO E STATI UNITI
Difficile dire cosa il paese simbolo del capitalismo sceglierà realmente di fare delle migliaia di persone che premono alla frontiera. Donald Trump da parte sua ha subito dichiarato via twitter che la Carovana è un caso di emergenza nazionale e che, nel caso in cui il Messico non riuscirà a contenerla, quest’ultima dovrà vedersela con l’esercito americano e la polizia di frontiera.
Il Presidente americano ha poi attaccato i paesi di provenienza dei vari migranti: “Gli aiutiamo e loro non fanno niente per noi? Taglieremo gli aiuti a Guatemala, Honduras e Salvador e prenderemo misure drastiche verso chi lascia partire i migranti”.
Dichiarazioni in perfetta sintonia con il tempo elettorale, visto l’avvicinarsi delle elezioni di midterm, il prossimo 6 novembre.
Intanto in Messico il capo dei servizi d’emergenza, Gerardo Hernandez, all’inizio ci ha tenuto a far sapere che erano circa 5 mila le persone arrivate nel paese e si purtroppo non tutte hanno potuto usufruire delle tre strutture preparate in precedenza proprio per accogliere il flusso in arrivo.
Un trattamento a parole ben diverso da quello normalmente riservato ai migranti in transito, che, come ampiamente denunciato dalle organizzazioni di base messicane, quotidianamente sono sottoposti alle violenze e abusi di uomini in divisa o bande criminali.
La Carovana che si trova ancora nel territorio messicano del Chiapas, ha percorso solo 100 dei 4mila chilometri per arrivare alle porte degli Stati Uniti senza trovare per ora opposizione da parte della polizia federale che è stata schierata nella zona con il solo scopo di contenere la marcia e far si che “non vi siano violazioni dei diritti umani”. Nessun controllo documenti nelle casetas, i tipici posti di blocco dei federali, che, increduli di fronte alla marea di persone che si è riversata nella zona, hanno l’ordine di non intervenire.
A Carlos Martìnez, giornalista di El Faro, un poliziotto spiega che a Mapastepec la sua funzione è solo quella di accompagnare i profughi centroamericani; “L’ordine di garantire la loro sicurezza, dice, arriva da molto molto in alto”.
Luis Raúl González Pérez, presidente della Comisión Nacional de los Derechos Humanos (CNDH), intanto dichiara che il Messico è intenzionato a salvaguardare i diritti e la vita delle persone in marcia.
Dopo aver chiesto agli Stati Uniti di migliorare la sua condotta nei confronti dei nostri cittadini emigrati non possiamo permetterci di trattare male queste persone.
Sulle scelte del Messico grava il clima da interegno tra il Presidente uscente Pèna Nieto e il nuovo ePresidente entrante Andres Manuel Lopez Obrador. Per cui per il momento la politica messicana è in attesa di vedere quel che succede. Salvo offrire a parole ipotetiche strade per far sì che i migranti “regolarizzino” la loro posizione nel paese. Cosa che fino a questo momento nessuno sta chiedendo, visto che la meta di chi si è messo in cammino sono gli Stati Uniti.
In alto si muove la complessa partita tra Stati Uniti e Messico, giocata tra legami economici, legali ed illegali, che nessuno dei due paesi può recidere.
Una partita in cui si inserisce anche la volontà del Governo americano, anche al di là delle dichiarazioni roboanti sul muro di Trump, di forzare il Messico a trasformarsi in un imbuto senza uscita per i migranti in arrivo dal Centroamerica.
In basso per la carovana la strada verso la frontiera Nord è lunga e per ora l’unica cosa reale è la solidarietà dei messicani al passaggio di questi uomini e donne che sono lo specchio delle ingiustizie globali.