Sul danno sanitario e la contaminazione ambientale prodotta dall’esposizione massiccia ai pesticidi in agricoltura, cominciamo ad avere un’ampia circolazione di numeri consolidati dalla letteratura scientifica. La stessa Fao, durante l’incontro internazionale sull’agro-ecologia dello scorso aprile, dal titolo Second International Symposium on Agroecology, è arrivata ad affermare che “Il modello della rivoluzione verde seguito all’industrializzazione dell’agricoltura e all’utilizzo della chimica di sintesi può considerarsi esaurito a causa dell’enorme impatto ambientale prodotto dall’uso massiccio di fertilizzanti chimici e pesticidi che ha contribuito all’inquinamento della terra, alla contaminazione dell’acqua e alla perdita di biodiversità”. Oltre alla morte lo scorso mese di Fabian Tomasi, il simbolo della lotta contro i pesticidi in Argentina, deceduto per una polineuropatia tossica diagnosticata dopo che aveva trascorso anni ad aprire e mescolare pesticidi in un’azienda agricola, a darci il termometro della situazione ci ha pensato negli stessi giorni il primo rapporto Cambia la terra, un progetto promosso da Federbio, con il sostegno di ISDE, Legambiente, Lipu, e WWF.
Citando autori e studi che hanno permesso in questi anni alla comunità scientifica di raddrizzare la rotta e smascherare le omissioni delle multinazionali protagoniste di questa “devastazione verde”, il rapporto ha valutato in “ventisei milioni di casi di avvelenamento all’anno, oltre 71 mila al giorno, l’impatto dell’intossicazione acuta da pesticidi a cui si somma l’effetto delle piccole dosi ripetute nel tempo, quelle su cui negli ultimi anni si sta concentrando l’attenzione della comunità scientifica perché determinano un incremento significativo del rischio di patologie cronico-degenerative come cancro, diabete, malattie neurodegenerative, malattie cardiovascolari e disturbi della sfera riproduttiva”. L’Italia in particolare conosce da vicino questo rischio chimico visto che è fra i maggiori consumatori di pesticidi a livello europeo. Dall’ultimo report dell’Agenzia europea per l’ambiente risulta, infatti, che il consumo di principio attivo nell’Unione europea è mediamente di 3,8 chili per ettaro, “in Italia invece si arriva a 5,7 chili per ettaro”, e in 10 anni, dal 2006 al 2016, “si è registrato un aumento della spesa per i pesticidi pari al 50% e per i concimi del 35%”.
Le conseguenze? Un tipo di agricoltura intensiva accompagnata da un uso massiccio di diserbanti e concimi chimici è tra le principali responsabili dell’impoverimento del terreno e del calo della fertilità, per via della conseguente riduzione della materia organica e della concentrazione di microrganismi attivi naturali. Un dato inquietante per Federbio “perché ci vogliono migliaia di anni per creare pochi centimetri di terreno fertile, ma bastano pochi decenni per distruggerlo”, generando spesso un’erosione che comporta l’aumento del rischio di inondazioni e frane. “Un fenomeno che interessa ormai un terzo della superficie agricola del Paese e genera una perdita annuale di produttività pari a 619 milioni di euro”. Uno studio del 1992 sul tema del danno economico complessivo prodotto dall’uso dei pesticidi solo negli Stati Uniti arrivava a quantificarlo in 8miliardi di dollari l’anno. La ricerca è stata aggiornata in uno studio successivo pubblicato nel 2005 arrivando a valutare i costi derivati dall’uso dei pesticidi, spese sanitarie, perdita di produttività, perdita di biodiversità, costi per il disinquinamento del suolo e delle acque, in circa 10 miliardi di dollari all’anno nei soli stati a stelle e strisce. Un risultato simile emerge anche da uno studio del 2012 che ha valutato i costi legati all’intossicazione acuta da pesticidi nello Stato del Paranà, nel Sud del Brasile, quantificabili in 149 milioni di dollari ogni anno. In pratica per ogni dollaro speso per l’acquisto di pesticidi nel Paranà se ne spendono circa altri 1,28 per contenere l’effetto dell’avvelenamento.
Cambiare il modo di pensare l’agricoltura oggi, quindi, significa “cambiare la destinazione di una significativa quota di risorse pubbliche che finora è servita a sostenere scelte ad alto impatto ambientale e sanitario, ma che può essere reindirizzata per sostenere un modello agricolo più sicuro, più sano e più equo”. Ma questo è solo un lato del problema prodotto negli anni dall’economia verde. L’IPCC, la task force di climatologi organizzata dall’Onu, ritiene che siano proprio i modelli agricolo e alimentare imperanti ad essere i responsabili per il 24% del rilascio dei gas serra che generano il cambiamento climatico. Per Federbio una conseguenza che può essere evitata scegliendo la strada dell’agro-ecologia visto che secondo i dati pubblicati dal Rodale Institute già nel 2011, “i sistemi di agricoltura biologica utilizzano il 45% in meno di energia rispetto a quelli convenzionali e producono il 40% in meno di gas serra rispetto all’agricoltura basata su metodi convenzionali”. Alla luce di queste proiezioni non è sbagliato pensare che l’agricoltura si potrebbe trasformare da problema in soluzione visto che i terreni biologici svolgono un ruolo di assorbimento del carbonio che può arrivare a circa mezza tonnellata per ettaro l’anno.
Eppure secondo i numeri che vengono dall’Ufficio studi della Camera dei deputati: “su 41,5 miliardi di euro destinati dall’Europa all’agricoltura italiana, a quella biologica vanno appena 963 milioni di euro. In altri termini, il bio, che rappresenta il 14,5% della superficie agricola utilizzabile, riceve il 2,3% delle risorse europee”. Anche solo in termini puramente aritmetici, senza calcolare il contributo del biologico alla difesa dell’ambiente e della salute, è circa sei volte meno di quanto gli spetterebbe. Se ai dati dei fondi europei si aggiunge il cofinanziamento nazionale per l’agricoltura, pari a circa 21 miliardi, il risultato rimane praticamente invariato: “su un totale di fondi europei e italiani di circa 62,5 miliardi, la parte che va al biologico è di 1,8 miliardi, solo il 2,9% delle risorse”. Per Federbio siamo davanti ad una penalizzazione netta: “Nel capitolo di spesa destinato specificamente all’interno dei PSR (Piani di sviluppo regionale) alla vera e propria lotta al cambiamento climatico, solo il 9,5% delle risorse pubbliche va all’agricoltura biologica, mentre all’agricoltura integrata, che usa teoricamente meno pesticidi sul campo e l’agricoltura conservativa, una pratica in cui si evita di dissodare i terreni, ma utilizza ampiamente il glifosato, ricevono il 13% delle risorse”.
In altre parole, “gli italiani e gli europei in generale pagano per sostenere pratiche agricole che alla fine si ritorcono contro l’ambiente e contro la loro salute, a partire da quella degli agricoltori stessi”. Una situazione che occorre invertire subito, fornendo strumenti e opportunità a chi sceglie l’agricoltura pulita. Un paradosso che in Francia ha convinto, anche un giornale satirico (non sempre di buon gusto) come Charlie Hebdo, a lanciare nel numero del 12 settembre un appello per l’eliminazione immediata di tutti i pesticidi di sintesi. Il titolo di questo appello è Noi vogliamo i papaveri: “Non riconosciamo più il nostro Paese; la natura è sfigurata. Un terzo degli uccelli è scomparso in 15 anni, metà delle farfalle in 20 anni; api e impollinatori muoiono a miliardi. Le rane e le cavallette sono come evaporate. I fiori selvatici diventano rari. Questo mondo che svanisce è nostro e ogni colore che soccombe, ogni luce che si spegne è un dolore definitivo. Ridateci i nostri papaveri! Ridateci la bellezza del mondo!”. L’obiettivo, per nulla ironico, è arrivare a 5 milioni di adesioni in due anni.
di Alessandro Graziadei