La Turchia sta attraversando una crisi economica molto forte. Dietro ci sarebbe il conflitto tra l’amministrazione Trump degli Stati Uniti d’America ed il governo guidato dal Presidente della Repubblica di Turchia.
Crisi Brunson
Andrew Craig Brunson è un pastore evangelista statunitense che da ventitré anni vive e lavora in Turchia. Il 7 ottobre 2016 è stato arrestato, insieme a sua moglie, con l’accusa di avere dei legami e ruoli con il fallito tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016. La signora Brunson è stata scarcerata dopo tredici giorni quando ormai era evidente che la detenzione del pastore evangelista avrebbe avuto una durata più lunga del previsto anche perché tra le accuse era stata aggiunta anche quella di avere delle connessioni con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione armata definita “terroristica” da parte dello Stato.
Nonostante diversi solleciti in diversi tempi e varie occasioni, da parte del governo statunitense, Brunson è stato trattenuto in carcere fino al 25 luglio del 2018. Quel giorno è stato scarcerato, sotto condizione, per via delle sue condizioni di salute. Brunson non può abbandonare il territorio nazionale e deve attendere presso la sua abitazione. Il tribunale che si occupa del suo caso lo processa con una richiesta di condanna che arriva fino a trentacinque anni di detenzione.
Mentre attorno al nome di Brunson a livello locale ed internazionale sia nel mondo dei media sia in quello politico si pronunciano numerose accuse, il suo caso, dopo la scarcerazione, è diventato il motivo di una crisi storica tra questi due paesi. La situazione è diventata molto calda soprattutto quando è stato scoperto che la cittadina turca, Ebru Ozkan, accusata di appartenere ad Hamas da parte dello stato d’Israele e trattenuta in carcere, è stata scarcerata con la richiesta personale del Presidente Donald Trump. L’obiettivo del leader statunitense era una sorta di baratto. Secondo il quotidiano Washington Post, questo accordo è stato discusso e preso tra i due presidenti durante un incontro riservato.
Reazioni economiche e politiche
Quindi nel momento in cui l’amministrazione Trump ha visto che, a differenza della sua parola mantenuta, da parte del governo turco non è stata fatta una mossa analoga, sono state prese alcune misure di boicottaggio. Il primo agosto del 2018, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha deciso di applicare una serie di sanzioni contro il ministro della giustizia e quello degli interni, ritenuti principali responsabili di questa crisi. Successivamente Donald Trump in diverse occasioni pubbliche ha espresso la sua rabbia contro il governo turco. Alla fine per numerosi prodotti turchi sono state ridotte le quote ed aumentate le tasse.
Le reazioni del Presidente della Repubblica di Turchia ed i suoi colleghi sono state aggressive e taglienti. Le decisioni dell’amministrazione Trump sono state definite sin dall’inizio come una “guerra economica”. La crisi politica è stata descritta come un “tentativo per rovesciare il governo eletto”. I media allineati con il potere amministrativo hanno lanciato una campagna di linciaggio e calunnia nei confronti di Donald Trump e gli Stati Uniti. Non sono mancate ovviamente in nessuna delle due parti frasi, posizioni e reazioni ultranazionaliste. Per la prima volta i due alleati storici della Nato sono arrivati ad uno scontro fatto di minacce e rabbia.
“Se loro hanno il Dollaro noi abbiamo Allah” così il Presidente della Repubblica di Turchia ha invitato i propri cittadini al boicottaggio dei prodotti statunitensi. Una sorta di guerra santa. Questa frase si è diffusa per tutto il Paese come un ordine. In pochi giorni alcuni cittadini hanno iniziato a vendere la valuta statunitense e i prodotti americani.
Ricerca di sostegno internazionale
Sin dai primi giorni della crisi il Ministro del Tesoro, Berat Albayrak, genero del Presidente della Repubblica, ha organizzato numerosi incontri pubblici con i rappresentanti delle banche, imprenditori turchi e stranieri. In ogni occasione ha cercato di rassicurare il mercato. La Banca Centrale ha deciso di aumentare leggermente il tasso di interessi per compensare il calo degli investimenti. In fretta e furia è stato approvato il nuovo scudo fiscale che permette l’entrata di denaro da fonti ignote in cambio di una bassa percentuale di commissione. Nei giorni successivi diversi membri del governo hanno incontrato rappresentanti di Russia, Iran, Cina e Qatar, Germania, Inghilterra e Francia per trasmettere il messaggio di una Turchia capace di resistere.
Questi incontri sono stati oggetto di diverse promesse di investimento, collaborazione e sostegno. Forse il più concreto è stato quello del Qatar che ha promesso, il 15 agosto, un’immediata iniezione di denaro, sotto forma di investimenti, per un totale di circa quindici miliardi di Dollari statunitensi. L’aiuto dei principi del Golfo riguarda i settori energetico, immobiliare e alimentare.
Motivi strutturali dietro il motivo cronico
Esattamente come ha sottolineato il professore universitario, Erinç Yeldan, nel suo intervento televisivo il 31 agosto, presso Medyascope Tv, numerose aziende turche in questi ultimi anni si sono indebitate presso le banche straniere. Secondo Yeldan il debito totale delle aziende supera il reddito nazionale, circa duecento miliardi di Dollari statunitensi. La questione è diventata un problema importante per due motivi; un’economia trainata dal settore edile che non produce beni. Poi c’è la svalutazione della moneta locale. Quindi un sistema economico che vede i debiti crescere. La crisi della Lira turca (1 Dollaro è salito da 3 Lire a 7 Lire) ha portato numerose aziende nell’impossibilità di saldare i debiti contratti in valuta estera.
Da parecchi mesi numerose aziende energetiche, alimentari ed edili chiedono alle banche di rinegoziare un piano di pagamento alternativo per saldare i loro debiti. Tra le imprese in difficoltà ci sono: Yildiz Holding che opera nel settore degli alimenti e possiede sette miliardi di USD di debiti, Dogus Holding che opera in vari settori e deve circa due miliardi e mezzo alle banche straniere, Bereket Enerji che opera nel campo energetico e possiede quattro miliardi di debiti bancari in dollari statunitensi e Yeni Elektrik, azienda energetica fondata anche dal capitale dell’italiana Ansaldo Energia che deve sette cento milioni di USD alle banche. Infine, il consorzio IcTas Astaldi che deve circa tre miliardi di dollari. Alcune aziende sono riuscite ad ottenere un nuovo piano di pagamento ma per altre le trattative sono in atto oppure si apre la strada verso l’asta pubblica.
Infatti una delle aziende più importanti del Paese ovvero la Turk Telekom è stata venduta attraverso un’asta, lo scorso agosto, a tre banche turche: Akbank, Garanti Bankasi e Is Bankasi. L’investitore libanese, la famiglia Hariri, attraverso la sua azienda Oger Telecom aveva acquistato nel 2005 la Turk Telecom per sei miliardi e cinquecento milioni di USD. Durante l’acquisto l’acquirente aveva ottenuto quattro miliardi e settecento milioni di dollari statunitensi di finanziamento dalle banche locali mettendo in ipoteca il cinquantacinque per cento delle azioni. In questi tredici anni la famiglia Hariri non è riuscita a saldare i suoi debiti e dunque una delle aziende più strategiche della Turchia è stata venduta alle banche. Haydar Akar, deputato nazionale, nel suo intervento parlamentare del 3 settembre, sottolinea che nel 2004 l’azienda non aveva nessun debito e possedeva circa due miliardi di utile nelle sue casse.
I primi fallimenti
Le privatizzazioni sfrenate e senza regola e la messa in atto di una cultura economica non sostenibile sono tra i motivi strutturali di questa crisi economica.
Una delle più importanti aziende di scarpe, la Hotiç, fondata nel 1938, ha concordato il fallimento. L’impresa possiede centocinquanta punti vendita con novecento dipendenti.
Un’altra azienda a dichiarare il fallimento concordato è Gilan, produttore di gioielli. Secondo Bloomberg, l’azienda aveva maturato debiti con dodici banche locali e straniere e da circa due anni era in difficoltà economica a causa del netto calo del settore turistico dell’aumento degli affitti dei negozi presso i centri commerciali.
Anche l’azienda di abbigliamento intimo Mendo nei primi giorni di settembre ha dichiarato fallimento. La Mendo, attiva da più di quaranta anni, possiede tre diverse identità fiscali che operano nel settore tessile.
Secondo il quotidiano nazionale Sozcu le grandi aziende che hanno dichiarato il fallimento concordato sono tredici. Tra queste: Gilan, Keskinoglu, Remoil, Makro Market, Dizayn Boru, Euronet Car Rental, Aker Insaat, Om-Ar Tekstil, Nalpas Gida, Efecan Tekstil e Smach Gida.
Una vita più cara
In un paese come la Turchia dove la maggior parte del petrolio e del gas si compra dall’estero in moneta straniera ovviamente la svalutazione della moneta locale colpisce in primis questi due prodotti. Di conseguenza, nel giro di poco tempo, si registrano numerosi aumenti di prezzo su vari prodotti di prima necessità.
Prodotti elettronici, farina, elettricità domestica, sigarette, benzina, caffè, trasporto pubblico, prodotti alcolici, carne. La lista è molto lunga. Tra i prodotti che hanno registrato il maggior aumento, figurano: caffè 33%, olio di girasole 29%, uovo 20%, riso 30%, corrente domestica 9%, pane comunale 15%, sigarette 10%, bevande alcoliche in alcuni casi anche 140%. Secondo il canale televisivo Halk Tv i costi di produzione dei beni di prima necessità sono aumentati in meno di due mesi del 25%, ovvero il 70% percento dei prodotti ha subito degli aumenti.
Vietato parlare di crisi economica
Dato che secondo l’attuale governo nessuno errore è stato commesso negli ultimi quindici anni nel settore economico, allora la crisi attuale è opera di un’amministrazione nemica come quella di Trump. Per cui, come ha fatto finora in tutti i conflitti sociali, criticare il governo ed accusarlo di aver sbagliato per le sue scelte economiche è vietato. Sono definiti “atti che minacciano la sicurezza economica”. Dal 13 agosto alcuni procuratori della repubblica hanno denunciato numerosi cittadini con questa accusa. In pochi giorni 346 cittadini sono stati denunciati per via dei loro messaggi sui social media riguardanti la crisi economica.
Una stampa che rischia di scomparire a causa del governo
A causa della crisi economica anche la stampa cartacea rischia di dichiarare fallimento. Le fabbriche statali di produzione di carta, come la Seka, sono state privatizzate nei primi anni dell’arrivo al potere del Partito dello Sviluppo e della Giustizia (AKP) che governa il Paese da più di quindici anni. Nonostante cinque ricorsi, nel 2003, le fabbriche Seka sono state vendute al gruppo imprenditoriale Albayrak. Nome noto a livello mondiale dato che uno dei figli della famiglia Albayrak è il genero del Presidente della Repubblica nonché l’attuale Ministro al Tesoro. I cinque ricorsi preparati da diversi tribunali parlavano di un’asta pubblica ingiusta a prezzi di vendita molto inferiori rispetto al reale valore delle fabbriche. Grazie ad un cambiamento legislativo, il governo ha dato il potere decisionale, delle aste pubbliche, al Consiglio dei Ministri. Quindi la vendita è avvenuta immediatamente. Eppure, dal 2005 che le fabbriche Seka hanno chiuso i battenti.
Con il passare del tempo la Turchia è diventata dipendente dalla produzione straniera, prima di tutto quella russa. Ovviamente l’acquisto di carta effettuato in moneta straniera in questo momento storico ha messo in difficoltà la stampa cartacea. Ad oggi tra i due paesi finora non è stato firmato ancora nessun accordo che preveda un piano per salvare il mercato e garantire le pubblicazioni dei quotidiani.
Mentre il governo AKP in tutti questi anni ha introdotto numerosi sgravi fiscali per le aziende edili, nel settore giornalistico per l’acquisto della carta non è stata presa nessuna misura fiscale. La Turchia si è trovata con un mercato che dipende dall’estero per sessanta percento delle sue necessità.
In queste ultime settimane il quotidiano nazionale Aydinlik, le riviste di satira Leman e Uykusuz, la casa editrice Ayrinti e Oglan, i quotidiani Cumhuriyet e Birgun, la fondazione Ugur Mumcu e sette giornali locali a Izmir hanno dovuto aumentare il prezzo di vendita, cambiare il formato oppure fermare le pubblicazioni.
In un paese che conta più di 150 giornalisti in carcere, 70 giornali, 25 canali radiofonici, 15 agenzie stampa, 29 case editrici, 20 riviste e 20 canali televisivi chiusi in questi ultimi due anni, si rischia di perdere un’ulteriore parte di stampa, questa volta per motivi economici legati alla crisi in atto.