Un tempo le procedure erano chiare: se il paese andava rilanciato sul piano occupazionale si faceva una politica di spesa in deficit, ma con un debito virtuale perché il denaro veniva ottenuto gratis dalla propria banca centrale. Se invece c’era bisogno di sollevare le sorti dei più poveri si procedeva ad una redistribuzione della ricchezza per via fiscale: si prendeva ai ricchi e si dava ai poveri aumentando le imposte sui redditi alti. Poi è cambiato il vento politico, sono mutati gli umori, i valori, gli assetti istituzionali e tutto si è fatto più opaco e confuso.
Da un punto di vista istituzionale la novità di maggior rilievo è rappresentata dalla rinuncia da parte dei paesi dell’eurozona a godere del sostegno della Banca Centrale Europa. Memori dei tempi in cui l’inflazione galoppava a due cifre anche per la disinvoltura dei governi a finanziare spese in deficit con nuova moneta, nel momento di definire l’assetto organizzativo dell’euro venne deciso di tagliare la testa al toro negando ai governi qualsiasi possibilità di accesso al rubinetto del denaro. Obiettivo realizzato affidando il governo della moneta a una struttura indipendente che può prestare denaro a qualsiasi banca commerciale, ma neanche un centesimo ai governi. L’effetto è stato che i governi sono stati declassati al rango di aziende che non hanno altro modo di finanziare i propri deficit se non chiedendo prestiti al sistema bancario e finanziario privato. Con due conseguenze piuttosto serie. La prima di carattere finanziario: l’aggravio di spesa dei bilanci pubblici a causa degli interessi. Una somma che nel caso italiano rappresenta circa il 10% del gettito fiscale. La seconda di carattere politico: l’inversione del rapporto di potere fra governi e mercati a causa della dipendenza dei primi nei confronti dei secondi. Dal momento che agli investitori interessa solo la salvaguardia dei propri investimenti, essi vigilano di continuo sull’operato dei governi per capire se stanno compiendo scelte che possono compromettere la loro capacità di pagamento e al minimo dubbio alzano la posta secondo la regola che al debitore meno affidabile vanno richiesti interessi più alti. Il canale comunicativo utilizzato è quello dello spread che ormai è tenuto dai governi in maggior considerazione del voto popolare.
Da un punto di vista culturale la novità di maggior rilievo è rappresentata da un diverso approccio al tema della povertà, della ricchezza e dell’equità. In passato non era molto radicata l’idea del self made man che si arricchisce esclusivamente per capacità propria. Difficilmente si concepiva la ricchezza come esclusivo merito personale, ma sempre come il frutto di un’azione collettiva che vedeva l’apporto della famiglia, dei lavoratori, dei fornitori, dello stato stesso. Specularmente la povertà non era concepita come una colpa personale, ma come una condizione dovuta in gran parte ad aspetti esterni: povertà familiare, ignoranza, malattia, incapacità di ottenere un lavoro. In definitiva ricchezza e povertà non erano considerati fatti privati, ma fenomeni collettivi su cui lo stato ha il dovere costituzionale di intervenire per colmare le differenze. Per questo si concepiva il sistema fiscale non solo come una via di finanziamento della pubblica amministrazione, ma anche come canale di redistribuzione della ricchezza, attraverso la progressività fiscale prevista dall’articolo 53 della Costituzione. Ma oggi che ricchezza e povertà sono concepite esclusivamente come virtù e colpa di tipo personale, si è persa di vista la funzione riequilibratrice del sistema fiscale e si reclama a gran voce la flat tax. Provvedimento che avvantaggerà inevitabilmente i ricchi aggravando ancora di più la situazione di ingiustizia odierna che secondo una fotografia scattata dall’Ocse vede il 52% del patrimonio familiare nelle mani del 13% delle famiglie più ricche, mentre quelle più povere, pari al 37%delle famiglie, detengono a mala pena il 3% del patrimonio familiare.
Pur avendo perso di vista la funzione sociale della ricchezza, il Movimento 5 stelle ha vinto le elezioni promettendo il reddito di cittadinanza. E benché nessuno abbia ancora ben chiaro cosa sia, di sicuro c’è che richiederà molte risorse. Ma come ce la farà è un bel rebus considerato che il suo partner di governo gli ridurrà il gettito fiscale a causa della flat tax, mentre la prospettiva di fare più debito rischia di mettere in allarme i mercati che reagiranno imponendo tassi più alti sui nuovi prestiti. Quello che si prospetta insomma è una strada che forse può portare qualche risultato elettorale, ma che prepara le condizioni per l’impoverimento futuro perché a più debito corrisponderanno più interessi da pagare.
Un consiglio che si potrebbe dare a Di Maio per giocare un ruolo positivo, è quello di cambiare prospettiva: invece di puntare a mettere nelle tasche dei disoccupati un’indennità di 700 euro al mese, potrebbe attrezzarsi per offrire subito un lavoro retribuito a un milione di persone impiegandole in attività di pubblica utilità: difesa del territorio, recupero edilizio e stradale, potenziamento dei servizi alla persona. E poiché anche in questo caso salta fuori la domanda “con quali soldi?”, converrebbe rispolverare la proposta del compianto Luciano Gallino che proponeva di sopperire alla perduta sovranità monetaria in ambito euro, con la creazione di una moneta complementare sotto forma di certificati di credito fiscale. In pratica si tratterebbe di pagamenti da parte dello stato con dei “pagherò” che al momento della scadenza vengono quietanziati non con la restituzione di euro, ma accettandoli come pagamento delle imposte dovute. E proprio perché circolanti con la garanzia che alla fine possono essere utilizzati per il pagamento delle tasse, nessuno avrebbe problema ad accettare i certificati di credito fiscale come mezzi di pagamento al pari degli euro, pur non essendo convertibili in euro, mettendo di fatto in moto quell’effetto di moltiplicatore tipico degli investimenti pubblici che oggi tutti invocano. Un modo emergenziale per recuperare, seppur transitoriamente, sovranità monetaria finalizzata al rilancio dell’occupazione, senza contravvenire alle regole europee. Del resto è ormai chiaro a tutti che questa Europa totalmente sbilanciata verso il mercato rischia di implodere per la sua incapacità di rispondere ai bisogni sociali. E allora qualche forzatura giuridico-economica può essere ciò che serve per rompere gli schemi e avviare quel processo di trasformazione democratica dell’Europa di cui tutti sentiamo il bisogno.
da Avvenire del 25/9/18