Anche se tecnicamente non è una guerra, molto ci assomiglia: individuare un nemico, partire all’attacco e chiedere alla truppa di fare quadrato. E poco importa se qui non si tratta di conquistare territori, ma cuori e menti, cioè consenso elettorale. Salvini fa così da sempre, da quando era una un esponente politico locale (ricordate la proposta delle carrozze della metro “per soli milanesi”?) e continua a farlo da Ministro degli Interni e vicepresidente del Consiglio. Nulla da dire, in questo lui è bravo, visto che con il 17% dei voti detta la linea non solo al socio di maggioranza del governo gialloverde, ma all’intero paese.
È una guerra che non conosce soste, chiuso uno scontro se ne apre subito un altro. La macchina non può fermarsi, altrimenti si incepperebbe.
Il governo è in carica da tre mesi soltanto, ma l’elenco delle battaglie combattute e annunciate è già lunghissimo e, a parte qualche eccezione, sono giocate tutte sulla direttrice sicurezza-immigrazione.
Le Ong, l’Aquarius, la Diciotti, i taser, la circolare sugli sgomberi, l’operazione “scuole sicure”, i prossimi decreti legge sull’immigrazione e sulla legittima difesa, il rilancio dei centri di detenzione amministrativa per migranti (Cpr) eccetera, per non parlare delle quotidiane “battaglie” social lanciate dai suoi profili. C’è stata pure una versione vacanziera: le “spiagge sicure”, cioè un po’ di soldi a un po’ di polizie locali per prendersela con un po’ di malcapitati ambulanti.
La posta in gioco è tutta politica, ma questo non toglie che le vittime siano molto concrete. Se i massimi livelli istituzionali accreditano la favola dell’invasione e della sostituzione etnica e se il nemico è il nero, l’islamico o lo straniero in genere, allora è ovvio che prima o poi qualcuno passa dalle parole ai fatti. Se il problema non è la questione abitativa, la speculazione immobiliare o l’inettitudine di alcune pubbliche amministrazioni (magari governate da lungo tempo dalla Lega, come in Lombardia), ma il senza casa, l’occupante e l’abusivo, allora finisce in sgomberi, mazzate e gente di ogni età buttata in mezzo a una strada. E se “ogni difesa è legittima”, perché meravigliarsi se un ex candidato leghista estrae l’arma da fuoco in piena stazione Centrale durante una lite?
L’autunno sarà caldo, come ha promesso il governo (e non l’opposizione o un centro sociale, e anche questo è un segno dei tempi). A Milano, in particolare, il prossimo periodo sarà impegnativo, perché questa città rappresenta una delle prede più ambite e non ci vuole uno scienziato per capire il perché.
Non c’è dubbio, Salvini parte in vantaggio, perché ha il vento in poppa, l’iniziativa politica, obiettivi chiari e il controllo delle forze dell’ordine. E il terreno di battaglia sarà quello a lui più favorevole, cioè la sicurezza, che ormai copre uno spettro vastissimo di temi.
Per questo spingerà sull’acceleratore degli sgomberi, anzitutto delle occupazioni abitative (l’Assessore regionale alla Casa straparla già di “sgomberi di quartiere”), ma non si dimenticherà certo dei suoi nemici politici, come gli spazi sociali. Dispone di uno strumento formale ad hoc, cioè la recente circolare ministeriale che permette di cacciare le persone senza preoccuparsi preventivamente del loro destino, e della pressione congiunta di Prefettura, organo periferico del Ministero, e di una Regione Lombardia a guida leghista.
Beninteso, non è che a Milano non si sgomberasse anche prima di Salvini. Si sgomberava, eccome, tanto che qualche assessore comunale si è vantato persino di essere stato più bravo di quelli del centrodestra. Aldo dice 26×1, storia di questi giorni, è una vicenda nata a prescindere da Salvini e tra maggio e luglio di quest’anno sono stati sgomberati ben tre centri sociali (Ri-Make, Zip e Lambretta).
Ci sono processi che avanzano da tempo e pervadono tutti i settori della società e delle istituzioni, ma sarebbe sciocco e miope non cogliere il salto di qualità e il cambio di scenario imposti dalla nascita del governo gialloverde, dall’egemonia salviniana e dallo sdoganamento definitivo del pensiero nazionalista, autoritario, xenofobo o peggio.
E non lo dico certo per assolvere chi c’era prima, anzi, perché proprio la rincorsa delle destre sul loro terreno, lungi dall’ostacolare la loro crescita, qui come altrove in Europa, ha spianato loro la strada. No, lo dico perché non possiamo affrontare questa fase facendo semplicemente le cose che abbiamo sempre fatto, oppure pensare di portare a casa la pelle rinchiudendoci nei nostri fortini assediati. Ne usciremmo devastati.
Non ho risposte pronte o ricette miracolose, nessuno e nessuna credo che le abbia, qui e ora. Ma alcune cose le sappiamo. Primo, non possiamo andare avanti così. Secondo, non c’è scampo nella solitudine e nell’autoreferenzialità. Terzo, dobbiamo ricominciare a pensare in grande, porci il problema di organizzare un altro punto di vista. Quarto, non siamo messi bene, ma non siamo neanche al Ground Zero. A Milano, ad esempio, nell’ultimo anno e mezzo migliaia di uomini e donne sono ripetutamente scesi in piazza nelle varie mobilitazioni contro il razzismo, il fascismo, l’omofobia e il sessismo. Non erano le solite piazze, erano plurali, orizzontali e fresche.
Insomma, qualcosa sappiamo, partiamo da qui e lasciamo perdere le cazzate.