“I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne di nuovi. A misura che i supplicii diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che li circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. […] Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”
-CESARE BECCARIA, Dei Delitti e delle Pene–
La salute è considerata un “fondamentale diritto dell’individuo[1]” e, purtuttavia, il carcere sembra porla costantemente in un angusto e (s)comodo secondo piano. Paradossalmente è proprio laddove le anime sono più fragili e, pertanto, dovrebbero essere tutelate maggiormente che il fondamentale diritto alla salute vive di un precarissimo equilibrio. Se è vero, infatti, che gli artt. 146 e 147 c.p. disciplinano il differimento dell’esecuzione della pena per “gravissimi motivi di salute” lo è, altrettanto, il fatto che risulta quasi impossibile definire quali siano le condizioni di salute “incompatibili con lo stato di detenzione”: da ciò ne deriva che la discrezionalità del singolo magistrato assume un’eccessiva pregnanza.
La corte di Cassazione, sul punto, ha più volte precisato che “affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27 Cost., comma 3 e art. 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria[2]”. Il giudice deve, pertanto, di volta in volta “verificare, adeguatamente motivando in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva da una legittima esecuzione della pena[3]”. Il combinato disposto dagli artt. 27, 32 Cost. e 3 Convenzione EDU sembra ribadire, in definitiva, il principio secondo il quale il carcere comporta necessariamente una sofferenza che, tuttavia, non può e non deve intaccare la dignità umana: da ciò discenderebbe il necessario rispetto del diritto alla salute. A tal proposito si potrebbe citare una brillante riflessione: “il carcere, anche nel migliore mondo possibile, è violenza ed è pura violenza, una speranza che illude. Il carcere non è la medicina, ma è il peggiore dei mali. Non è con il carcere e con la giustizia delle catene che si educa, ma, piuttosto, con l’amore. E l’amore in carcere è la cosa che manca più di tutti. Il carcere migliore è quello che ancora devono costruire[4]”.
Le più recenti riflessioni dottrinarie e giurisprudenziali sul carcere sembrano, infatti, convergere su di un punto: l’intangibilità di una piccola ed onnicomprensiva sfera della vita umana chiamata dignità. Se tale conclusione è, quantomeno, apprezzabile e sacrosanta non si deve, tuttavia, strumentalizzare, con una sorta di eterogenesi dei fini, il concetto di dignità al fine di erodere i diritti fondamentali dell’individuo. Mi spiego meglio: se la dignità umana deve, certamente, essere tutelata e considerata inviolabile, allo stesso tempo non possiamo far coincidere, sempre e comunque, qualsiasi diritto fondamentale con quest’ultima. In tal modo si rischia di erodere, ad esempio, il diritto alla salute facendolo coincidere unicamente con la dignità umana: il diritto alla salute è, infatti, ben più ampio del basilare diritto alla dignità. Se è vero che la dignità è il confine invalicabile della vita umana, infatti, lo è altrettanto la circostanza secondo la quale i diritti umani non si compendiano unicamente all’interno di quest’ultima sfera: la dignità non può essere un ossimorico escamotage per limitare i diritti umani. Tale riflessione, a modestissimo parere di chi scrive, vale tanto più in quest’epoca, nella quale le tematiche carcerarie sembrano condensarsi nel ripetersi di due parole: pericolosità sociale-dignità umana.
Nel carcere “è la privazione totale della dignità che abbassa l’uomo rendendolo simile ad una bestia. […] [Esiste] il dolore dell’uomo imprigionato che racconta le privazioni di ogni desiderio, dove persino i movimenti vengono impediti dal limitato spazio delle celle. Corridoi, stanze squallide, sporche, illuminate costantemente da una luce gioca. Oltrepassata la porta della prigione, sei entrato nel paese della notte: inferriate, cancelli, manette, ti identificano, ti spogliano, ti osservano, ti perquisiscono, ti isolano, ti custodiscono. Hai perduto per sempre la chiave della tua vita, il mondo esterno è crollato come un castello di carte[5]”. Come è possibile che la pena rieducativa sia questa?
Il diritto alla salute dei carcerati è, forse, uno dei più emblematici casi di strumentalizzazione del concetto di dignità umana: il criterio di tutela minima diviene, infatti, la sintesi e la somma della massima tutela giuridica. Tutto questo accade, tanto più, nei casi nei quali l’essere umano viene obliato a favore dell’allarme sociale: non sembra esistere più un uomo ma un pericolo sociale che, previa adeguata motivazione, viene discrezionalmente valutato. Ed è proprio in queste ipotesi che il concetto onnicomprensivo di dignità viene strumentalizzato: garantire la dignità umana, la tutela minima e sufficiente della vita, diviene, al contempo, l’essenziale ed il superfluo dell’ordinamento carcerario. Il diritto alla salute non dovrebbe, forse, considerarsi qualcosa di più della semplice “assenza di malattie”? Non dovrebbe, forse, considerarsi come la tutela dell’integrità psicofisica dell’individuo?
Una pena che tende alla rieducazione del condannato, d’altronde, non può proclamarsi tale se, anziché tutelare tutti i diritti dell’essere umano, tenta unicamente-e con scarsi risultati-di garantirne una piccola porzione che assomma in un concetto di tutela minima definito dignità. “Almeno la dignità!”: verrebbe da dire. Le difficoltà di applicazione degli artt. 146 e 147 c.p., i frequentissimi casi di autolesionismo e di suicidio in carcere sembrano sferzare in più punti la recente concettualizzazione dell’onnicomprensiva “dignità sufficiente”.
Si suole dire, sin dagli esperimenti di Newton, che il bianco è “la somma di tutti i colori”. La dignità, mutatis mutandis, nella riflessione contemporanea sul carcere sembra essere divenuta “la somma di tutti i diritti umani”: tuttavia, così non è. La dignità è, al pari degli altri diritti, uno dei diritti inviolabili dell’uomo e non può, in alcun modo, divenire il vaso di pandora da utilizzare per eludere la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti anche ai detenuti. Una stella, per quanto bella, non potrà mai eguagliare il cielo stellato.
Fuor di metafore si potrebbe concludere sottolineando che i diritti umani dei carcerati devono essere garantiti anche e, soprattutto, considerando che la costrizione in vincoli rende particolarmente fragili le loro esistenze: la dignità non può essere la tutela massima. Tutti i diritti sono uguali davanti alla legge: calpestarli “è dunque superfluo e perciò tirannico”.
Dott. Daniel Monni
[1] Art. 32 della Costituzione
[2] Cassazione Penale, sezione I, 22 marzo 2017, n. 27766
[3] Ibidem
[4] MUSUMECI C., L’urlo di un uomo ombra, Edizioni Smasher, 2013, pagina 168
[5] OLIVIERI D., Oggi a me, domani a chi?, pagine 73-74