Il governo del Cambiamento, appena insediatosi, ha posto nuovamente questioni mai abbandonate del tutto dall’area più reazionaria di questo paese. L’aspetto simbolico del crocifisso nelle classi e il suo ripristino, per esempio, è una proposta che ci dice molto della direzione del cambiamento promosso con tanto fervore. Ma quello è solo l’inizio.
Alcuni anni fa degli amici della Repubblica Ceca mi hanno raccontato, con orrore, che l’esercito stava entrando nelle scuole con l’argomento del patriottismo. Di fatto, la collaborazione con l’istituzione educativa permetteva alle forze armate di farsi, per così dire, un po’ di pubblicità, e di mettere anche in mano ai fanciulli delle belle armi vere, più vere di quelle che si vedono nelle serie tv. Non ci potevo credere.
Da noi invece, già da un po’ di tempo, si cominciano a vedere delle simpatiche attività di alternanza scuola-lavoro realizzate in collaborazione con le Forze dell’Ordine, delle ispezioni di agenti antidroga e perquisizioni senza mandato nelle scuole superiori, degli incontri educativi in cui dei militari di carriera raccontano ai bambini come è stata la Prima Guerra Mondiale e l’eroica partecipazione degli Italiani, secondo la versione propagandata dall’Esercito, ovviamente. Antonio Mazzeo, giornalista antimilitarista e professore, dettaglia nei suoi articoli pubblicati da Pressenza diverse iniziative promosse in varie città del nostro paese negli ultimi tempi e non ci possiamo stupire troppo. Nello spirito del cambiamento sbandierato c’è pure la rivalutazione della valenza educativa del servizio di leva obbligatorio; è tutto coerente.
Ma allora, dobbiamo solo aspettare che, insieme al crocifisso, ci obblighino ad appendere in classe anche un bel mitra? Per la sacrosanta legittima difesa, s’intende! Magari qualche bambino straniero, a cui è stata negata la mensa (vedi il caso di Lodi di questi giorni), colpito da crampi di fame, potrebbe affibbiare un morso al polpaccio di qualche insegnante e a tali aggressioni è bene essere preparati.
È mai possibile che non si possa fare niente?
Per avere governanti adeguati bisogna anche essere dei cittadini adeguati. Il principio di delega ci ha fatto credere che, dopo quella crocetta sul cartoncino ogni quattro o cinque anni, non ci sia più niente da fare che guardare le notizie in TV e, casomai, arrabbiarsi con il conduttore di turno.
Negli anni Settanta Giorgio Gaber cantava: “La libertà è partecipazione” e forse si riferiva alla partecipazione politica che le generazioni di quell’epoca incarnavano, in un’onda epocale che ha fatto vibrare tutto il Mediterraneo. Oggi, nel disincanto della morte delle ideologie e nell’era della politica online, il paesaggio è cambiato, ma il concetto vale lo stesso. Partecipare oggi significa far sentire la propria voce, rompere il muro del disfattismo e dare il proprio contributo.
Oggi, nella società del marketing commerciale e sociale, i cittadini, senza essere parte di alcun partito od organizzazione, sono diventati clienti e perciò hanno accesso al “servizio per i consumatori”. Senza dubbio è necessario un cambiamento culturale per imparare a usarlo, dato che qualsiasi azienda privata o pubblica ne è ormai dipendente. Anche le scuole, se non mandiamo più lì i nostri figli, rischiano di chiudere. E se i professori e i dirigenti scolastici si rifiutano di accettare la militarizzazione, fino a che restiamo in democrazia, non è possibile prescindere dal loro assenso. I Dirigenti Didattici devono rispondere del buon funzionamento e della sopravvivenza dell’Istituzione scolastica. Gli studenti, il personale docente/non docente della scuola e i genitori sono i cittadini che, se agiscono adeguatamente, possono cambiare davvero la politica educativa, anche quando dall’alto arrivano direttive dal sapore tristemente retrò.