di Domenico Moro
La tragedia del crollo del ponte di Genova è la dimostrazione del fallimento dei due assi prevalenti e indiscutibili delle politiche italiane degli ultimi 20/30 anni: le privatizzazioni e l’Europa. Due fattori strettamente legati tra di loro dalla concezione della superiorità del mercato autoregolato e del privato (in altre parole del capitalismo). Non si capisce come si possano assolvere vent’anni di austerity e neoliberismo europei e esaltare una specie di placebo come il piano di investimento Junker. Sono molti anni che in Italia è prioritario perseguire la disciplina di bilancio. Ciò provoca la riduzione o il blocco degli investimenti fissi, che non può che condurre a un deterioramento delle infrastrutture. Solo per fare un esempio percepibile da tutti, lo stato delle strade in molte regioni e città, a partire da Roma, è in condizioni di degrado incredibile. Ma anche il crollo del valore aggiunto del settore costruzioni – a causa del crollo degli appalti e della spesa pubblica dopo il 2010 – non ha paragoni con quello di altri Paesi, soprattutto al di fuori dell’area euro.
Nel 2014 il ragioniere generale della provincia di Roma (non un politico) disse a un convegno, organizzato dal Sistan presso la sede della provincia, che gli investimenti erano stati per alcuni anni (quelli più duri di Monti) pari a zero, per il Fiscal compact e a motivazione dello stato pessimo delle strade e delle infrastrutture.
Ma, a parte la manutenzione, non c’è stata, a causa della disciplina di bilancio, una politica di sviluppo di infrastrutture e di costruzione di nuove infrastrutture di trasporto viario, ferroviario, ecc., a parte pochi casi – come l’alta velocità (peraltro solo tra Napoli e il Nord), legata agli alti profitti che consente. Il programma Junker, che viene esaltato da alcuni commentatori per assolvere la Ue, è riconosciuto essere ininfluente e molto al disotto delle necessità (315 miliardi per tutta Europa, di cui solo 21 stanziati effettivi!) e poi è legato alla mobilitazione degli investimenti privati, cioè sono soldi spendibili solo con impegno misto pubblico-privato, il che rende complicato il suo utilizzo. Ma soprattutto condizione imprescindibile e prioritaria è che tale aumento dei finanziamenti non provochi l’aggravamento del debito pubblico. In un paese come l’Italia – con una morfologia e fragilità del territorio problematici e neanche paragonabili a quelli dell’Europa centrale – servirebbero investimenti di decine di miliardi solo per i prossimi dieci anni. È del tutto evidente che una cosa del genere non si può fare nel contesto euro e dei trattati.
Ed è altrettanto evidente che le infrastrutture e i monopoli naturali e artificiali, come la rete autostradale, vanno nazionalizzate, sottoposte a manutenzione costante e ampliate con investimenti massicci, che, oltre alla cosa più importante, cioè mettere in sicurezza la vita dei cittadini, darebbero lavoro e incrementerebbero il Pil del Paese con opere utili. Visto che tale necessità non è pensabile nel quadro dell’integrazione europea è altrettanto evidente che, se non si vuole parlare, a vanvera, di voltare pagina, bisogna uscire dall’euro.