Difficile per un ligure, un savonese-genovese, scrivere a caldo della tragedia del ponte Morandi.
Il giorno dopo con i rumori degli scavi ancora in corso, gli scricchiolii del mozzicone di ponte ancora sospeso, è come essere stati, nel silenzio (di pochi) del 14 agosto, all’ingresso di una valle che fa l’eco. Dove abbiamo potuto sentire la disperazione, le urla, il respiro di chi scavava e l’urlo dei pochi sopravvissuti. Ma anche l’eco dell’ululato degli sciacalli scesi su Genova, sulla Liguria, pronti più che mai a ogni sciagura ad azzannare la carogna, sì scusate, la carogna, per bearsi di una buona notizia -avere spedito via una nave di migranti – in un giorno di tragedia o per chiedere la testa di tutti, dimenticando che il cesto di quelle che rotolano potrebbe comprendere anche la loro nonostante la frettolosa rimozione di post e diktat sulle cose da fare e non fare che assicuravano, su dichiarazione delle autostrade, 100 anni ancora di vita a quel ponte.
Genova, la Liguria, noi rugginosi liguri ma solo apparentemente schivi e poco inclini all’accoglienza, sempre pronti a un viaggio per poi tornare, abbiamo vissuto gli ultimi 18 anni con cadenze ritmate da sciagure imprevedibili o prevedibili, comunque limitabili da una maggiore nostra generale saggezza. La prevedibilità, scavalcata dalla realtà, del luglio 2001 con il G8 che a Genova ha cancellato una generazione di speranza dalla politica, due alluvioni, la torre piloti. Non è stato un beffardo gioco del destino, comunque l’alea del rischio non era prevalente.
Perché il Morandi come le alluvioni o la nave semivecchia contro la torre piloti se non erano tragedia annunciate, segnali premonitori li avevano lanciati. Il traffico del porto mutato con navi sempre più grandi lo potremmo paragonare a quanto è accaduto in 51 anni sul Morandi, ingegneria da rivista d’avanguardia, ma per una realtà logistica di mezzo secolo fa. C’era una sola autostrada, oggi tra raccordi, intersezioni, porti, aeroporti, traffico urbano e turistico sono paragonabili a cinque, unica (era l’unica) fettuccia di cemento sospesa sulle vite e sulle case, per decenni anche sulle fabbriche e le loro ciminiere, a collegare est ed ovest della città e della regione con il nord italia. I segnali c’erano con gli allarmi lanciati anche da insospettabili “rivoluzionari” (ex presidenti degli industriali). Qualificati come allarmismi di interesse per sostenere grandi nuove opere. Solo un imbecille potrebbe dire che non servono, certo da realizzare con intelligenza. Ma per e sulla famosa Gronda che avrebbe dovuto e potuto (è ancora un disegno da realizzare dopo quasi venti anni) risolvere molti problemi e, forse, evitare il tracollo del Morandi, ci siamo fatti tutti del male. I neonati all’epoca 5stelle a cavalcare tutti i mega e microcomitati dei no e a fidarsi delle affermazioni delle Autostrade (il Morandi durerà ancora cento anni, post poi rimossi a ridosso della tragedia dell’altro ieri), la vocazione del più duro e puro a scavalcare tutto e tutti, l’incapacità del centrosinistra e della sinistra nel decidere perché amministrare vuol dire anche sapere e avere il coraggio di decidere. Invece di decidere tra confronti, debat public, tutto si è trascinato per paure, conti elettorali, timori di no o di critiche. Le opere necessarie si possono fare, si devono fare, si sceglie la via migliore e si fanno.
Le altre autostrade della Liguria sono solo degne di questo nome. L’autofiori del ponente è priva delle corsie di emergenza eppure è l’autostrada dei Tir da e per a Francia. La Savona Torino nata negli anni Sessanta con la Fiat e il suo porto di Vado Ligure per l’esportazione delle auto (poi chiuso con la fabbrica ligure) era una camionale tutta curve per le bisarche. Divenne anche la strada del mare del boom per i piemontesi, fece 620 morti in venti anni di incidenti. Fu raddoppiata a spese quasi totalmente pubbliche dopo la dismissione della Fiat. La Genova Serravalle è rimasta alle origini, curve rodeo di una camionale. Aspetteremo il prossimo ponte che si sbriciola?
Oggi, domani, le decisioni saranno peggiori perché le opere necessarie saranno fatte con urgenza, l’emozione di 40, 50 morti dipingerà di oscurantismo chi dirà sì ma con garanzie e scelte chiare, la tragedia consentirà anche di andare oltre alle garanzie. E alle più “rosee” speculazioni.
L’Italia, la Liguria, Genova e la sua città verticale, (come scrive il politologo savonese Franco Astengo) sono un paese costruito tra gli anni ’50 – ’60 sulle macerie della guerra e sulla spinta del boom; abbiamo smesso di curarlo negli anni Novanta con la deindustrializzazione, le privatizzazioni, il territorio “da bere” e tutto ha iniziato ad andare in pezzi nel corso degli ultimi dieci anni senza che nessuno se ne curasse dopo la “grande abbuffata” dei decenni precedenti.
Una “grande abbuffata” e una noncuranza della realtà che hanno portato, come conseguenza, non solo la distruzione delle infrastrutture, del territorio, di migliaia di posti di lavoro ma anche al degrado e all’incattivimento dell’agire politico e dell’opinione pubblica, quella di ogni giorno. Sotto quei lastroni di cemento sui quali senza pudore la politica oggi litiga è stata schiacciata e scattata una fotografia del nostro paese, delle nostre città liguri e italiane: la famiglia media che andava in vacanza, un gruppo di studenti verso la Spagna dopo gli esami, immigrati regolari e no che andavano al lavoro in imprese di pulizie e ospedali, precari della nettezza urbana genovese che avevano trovato un lavoro per i mesi estivi, turisti diretti al terminal passeggeri del porto…
I miracolati a loro modo sono un emblema come il vigile del fuoco savonese illeso dopo 50 metri di volo, quei pompieri che hanno dato l’anima con poliziotti, carabinieri, vigili urbani, volontari. Quei pompieri il cui elisoccorso (la Liguria è l’unica regione ad avere la convenzione pubblica in materia) sta per essere disdetto proprio dal ministro che indossa una felpa di un corpo a seconda della necessità mediatica. Andatevi a rivedere i video del soccorso, del nubifragio imperante e l’elisoccorso lo stesso in volo per soccorrere o portare via salme pietosamente ricomposte. Perché quella è la scuola del maggiore Rinaldo Enrico, antesignano dei pompieri aerosoccorritori, quello che con la tempesta in corso a ridosso dell’imboccatura del porto di Genova il 9 aprile del 1970 continuò a volare per soccorrere l’equipaggio del mercantile London Valour affondato provocando venti vittime. Le immagini, nel grigio della burrasca e nella polvere dello schianto del ponte, erano molto simili. Quell’elisoccorso pubblico e dei vigili del fuoco che si vuole cancellare per darlo ai privati….
Il Morandi è venuto giù con la sua storia di ignavia, allarmi, responsabilità, di appalti decisi nei mesi scorsi per rifare sostegni e tiranti (venti milioni, costava meno in proporzione rifarlo) e ha fotografato la storia, passata e presente delle nostre realtà. Quelle del vaffanculo delle piazze e quelle delle incapacità a decidere in cui, purtroppo, la nostra olimpionica capacità del farci del male da soli non ci autorizza oggi, ad avere più diritti di altri di esprimere giudizi o l’avevo detto. Troppo spesso, non solo sui ponti ma anche nel nostro mondo mediatico, l’avevamo detto senza poi troppo affannarci per cercare di renderlo operativo.
Forse noi rugginosi liguri ce la ri-faremo anche questa volta, perché non c’è fango che tenga, anche quello morale, più vischioso e di difficile rimozione. Forse ce la ri-faremo, forse.