Era il 1989 e vivevo a Brasilia. Avevo preso in affitto un mini-bi-locale. Dopo quattordici anni felicemente trascorsi senza, avevo comprato un televisore. Volevo seguire la campagna per l’elezione del presidente della Repubblica Federativa del Brasile. Il candidato delle sinistre era Luiz Inácio Lula da Silva, detto Lula, che non vinse perché il potere economico commissionò, alla rete televisiva che raggiunge praticamente tutto il territorio brasiliano, una campagna di diffamazione nei suoi confronti. Non vinse anche perché l’impomatata immagine dell’antagonista venne dispendiosamente fabbricata a tavolino in uno studio televisivo statunitense. Il prodotto finale convinse democraticamente gli elettori che, al secondo turno, scelsero Fernando Collor. A elezioni avvenute, regalai il televisore al centro sociale della favela Paranoá perché fosse utilizzato in programmi di alfabetizzazione/educazione. Accusato di corruzione politica, a meno di tre anni dall’inizio del mandato presidenziale Collor si dimise prima che fosse approvato il processo di impeachment.
Avevo messo a disposizione di amici la mia casetta in riva al Rio Branco, nella città di Boa Vista, dove continuarono a esservi realizzate riunioni del PT, il Partito dei Lavoratori fondato da Lula. Prima di essere eletto, Lula ha dovuto candidarsi quattro volte. Nel 1994 e 1998 perse al primo turno contro Fernando Henrique Cardoso. Nel 2002, il PT lo candidò di nuovo nonostante i tre precedenti tentativi frustrati ma, a differenza delle altre volte, la decisione fu subordinata al risultato di primarie di partito. Colui che il primo gennaio del 2003 fu insignito della carica di presidente non era più il sindacalista agguerrito che nel 1989 si era candidato per la prima volta. Per riuscire a vincere, Lula dovette rassicurare il potere economico con dichiarazioni, promesse, concessioni, alleanze discutibili.
Conobbi Lula in Italia nel dicembre del 1995, nella città di Tolentino. Una delle persone intervenute per ascoltarlo, gli chiese perché mai avesse perso l’elezione del 1989 contro un energumeno come Collor. Lui rispose che fu per la stessa ragione che portò un energumeno come Berlusconi ad arrivare alla presidenza del Consiglio dei Ministri: i mass media fabbricano personaggi, distruggono reputazioni, manipolano elettori portandoli a eleggere, democraticamente, i candidati imposti dal potere economico.
Nel gennaio del 2003 partecipai al III Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. Una marea di gente era affluita per ascoltare l’appena eletto Lula. Pochi giorni prima a Brasilia, per il conferimento all’ex metallurgico della carica di Presidente della Repubblica Federativa del Brasile, era intervenuto un milione di persone che aveva trasformato l’evento in gioiosa, colorata, speranzosa festa popolare. Da Porto Alegre Lula sarebbe volato a Davos, dove lo aspettavano i pezzi grossi del capitale finanziario internazionale. Il Forum di Porto Alegre era iniziato proprio per contrapporsi frontalmente a banchieri e capi di stato che in Svizzera realizzavano le loro assemblee annuali, denominate Forum Economico Mondiale. Attivisti presenti a Porto Alegre avrebbero voluto che Lula non partecipasse alla riunione dell’élite finanziaria, per cui si lasciarono andare a proteste varie. Lula ci assicurò che a Davos avrebbe parlato di giustizia sociale, di globalizzazione della solidarietà, di guerra, sì, ma contro la fame nel mondo.
Anni fa, nel servizio di un telegiornale italiano si ridicolizzava il presidente brasiliano perché gli era capitato di commuoversi durante manifestazioni pubbliche. Delle ciclopiche trasformazioni avvenute in ambito sociale ed economico durante i mandati di Lula, in Italia poco si è parlato, naturalmente; ma lacchè, che credono di essere giornalisti, si sono permessi di portarlo in giro perché in grado di provare ed esternare sentimenti umani. Nell’arco dei due mandati del presidente Lula, che non è miliardario, né professore, né tecnico, né superesperto, ma solo operaio, il suo Brasile, grande quasi come l’Europa, si è trasformato da paese terzomondista in emergente potenza economica. È vero anche che la promessa riforma agraria non è stata realizzata; che le aspettative degli indios e dei loro alleati sono state frustrate; che scellerati progetti di cosiddetto sviluppo hanno continuato a violentare l’Amazzonia, che la corruzione è dilagata anche all’interno del Partito dei Lavoratori. Però, è sotto gli occhi di tutti che contro Lula è in atto una vera e propria persecuzione e, se non facessi la mia parte nel denunciarla, sarei una gran vigliacca.
L’accusa che gli hanno mosso contro è quella di possedere un appartamento frutto di tangente. Senza prove, è stato condannato dalla stampa, dalla televisione, da procuratori e giudici venduti, mentre i processi contro tutti gli altri politici brasiliani corrotti, e sono tanti, vengono sistematicamente fatti cadere in prescrizione. L’odio contro Lula è l’odio contro i poveri. Le autorità che l’hanno imprigionato, e lo mantengono isolato in una cella della Polizia Federale, lo tratterebbero meglio se fosse il proprietario d’immensi territori, se grandi compagnie fossero a lui riconducibili, se possedesse fabbricati al mare o a Parigi, se avesse oscene cifre di danaro ben protette all’estero. Il calcolato obiettivo dell’imprigionamento di Lula è quello di tenerlo lontano dalla disputa presidenziale di quest’anno, 2018, perché è lui il candidato che detiene più probabilità di vittoria. Sabato 28 luglio, a Rio de Janeiro è stato realizzato il Festival Lula Libero, con la partecipazione di più di quaranta artisti che hanno denunciato il regime di sequestro giuridico cui Lula è sottoposto; hanno anche dichiarato che l’attuale governo golpista è stato voluto, ed è protetto, dal Ministero Pubblico e dal Supremo Tribunale Federale. Durante la manifestazione è stato lanciato il libro “Lula libero, Lula libro”, nel quale ottantasei nomi eccellenti della letteratura e della cultura, rivendicano il ripristino della democrazia in Brasile e la libertà dell’unico prigioniero politico, Lula, appunto. L’esigenza di dire la mia su Luiz Inácio Lula da Silva si è imposta a partire dall’obbligo morale che sento nei confronti suoi, della giustizia e della verità. So che la mia microscopica presa di posizione si contrappone a calunnie, menzogne e ingiurie mastodontiche, criminosamente riproposte anche dai lacchè italiani che credono di essere giornalisti, però è essa che non mi fa sentire una gran vigliacca.