Qualche anno fa ho visto un film di Francesco Patierno, uscito nel 2011 al Festival di Venezia. Il titolo era Cose dell’altro mondo ed era liberamente ispirato a un’altra pellicola A day without a Mexican, di Sergio Arau. Entrambi sul tema dell’immigrazione, dell’importanza della presenza dei migranti nei paesi, del ruolo che hanno compiuto e compiono ancora oggi, del loro valore.
Patierno tocca il tema con intelligenza e umorismo in una commedia che è oggi più che mai vigente. E’ così importante ridere, anche quando le cronache quotidiane parlano di cose mostruose, anche quando al bar la gente se ne esce con commenti spaventosi. E’ importante imparare a ridere e per poterlo fare bisogna osservare il fenomeno da un diverso punto di vista.
“Conviviamo con i fondamentalisti islamici, gli zingari, i fancazzisti albanesi: prendete il cammello e andate a casa!” urla in modo violento l’imprenditore veneto interpretato da Diego Abatantuomo nella fiction di Patierno. Lo stesso imprenditore che, alla fine della storia, partirà per andare a prendersi i migranti in Africa. Per poter ridere si deve vedere la stupidità della violenza, si deve vedere la poca capacità dei violenti di osservare i processi, la loro miopia egoista e quanto tutto ciò sia ridicolo, indegno di esseri umani che si vogliano definire tali. In Cose dell’altro mondo gli immigrati, per magia, da un momento all’altro scompaiono, tutti insieme. E il sistema economico e la routine della vita di moltissime persone inizia a collassare. E tutto questo ci viene presentato attraverso scene della vita comune, deliziose gags e situazioni grottesche, seppure, in un certo senso, realistiche. Ci fa ridere e ci fa pensare, perchè ridendo possiamo anche riconciliarci con quella parte di noi che, qualche volta, è venuta fuori dicendo o pensando in base a quei cliché.
Per esempio, dopo il crimine di Jesolo il senegalese stupratore, già incarcerato, ha riempito i social nutrendo l’immaginario dell’uomo nero cattivo, quello delle favole dei bambini. Nessuno ha detto che la comunità senegalese in questi decenni è stata molto generosa e molto corretta. Anche se non era quella più numerosa sul nostro territorio, ha accettato le forme del dialogo istituzionale e ha sviluppato reti sociali e attività con gli italiani, si è sempre esposta nelle manifestazioni, nelle proteste che riguardavano tutti gli immigrati, non solo i senegalesi, con estrema apertura e senza violenza. Di questo i telegiornali non hanno mai parlato o ne hanno parlato troppo poco. Sono cose di questo mondo, di questo mondo.
Tempo fa ci fu una campagna in Europa, per valorizzare il ruolo e il valore degli immigrati. Anch’essa si ispirava al film di Arau, credo, perché il titolo era “Un giorno senza di noi” e stimolava la popolazione immigrata a scioperare un giorno, per far vedere meglio cosa manca, quando mancano i migranti. Un giorno, però, è poco. Un giorno passa troppo velocemente e la memoria è troppo debole e sbaglia in continuazione. Ma per un migrante, un giorno di sciopero è molto, è già troppo, a volte col grande rischio di perdere il lavoro e, con esso, la legalità. Lo sciopero è uno strumento proponibile quando a casa ti aspetta la famiglia e, se non lavori tu, lavora qualcun altro del nucleo familiare. Lo sciopero ha funzionato in altri momenti, oggi non riesce a convogliare le forze necessarie per un cambiamento, non convince, la società è più complessa e disgregata, non va. E i migranti, quelli che lavorano, in regola o no, hanno da rispondere a quelle altre persone che, da lontano, aspettano anche quel poco che serve, che serve sempre quando le prospettive sono pressoché nulle.
Ma con un’operazione culturale, come quella promossa da una commedia divertente e intelligente, qualcosa si può fare, per far lavorare con l’immaginazione chi tende a ripetere quello che dice chi grida più forte. Forse saranno necessarie una, mille o un milione di iniziative culturali che servano a muovere la fantasia e a creare prospettive nuove, perché questo è certo: ogni grande cambiamento, prima di avvenire, è stato immaginato e voluto dal profondo del cuore. Vale la pena tentare.