L’Alta Corte di Belgrado, con una decisione assunta lo scorso 11 luglio, ma resa pubblica solo alla fine di luglio, ha respinto la richiesta di riabilitazione che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei proponenti, portare all’annullamento del decreto delle autorità jugoslave dell’epoca, in base al quale Milan Nedić fu dichiarato «nemico del popolo» e conseguentemente privato dei diritti politici e delle proprietà private. Si tratta del decreto assunto dalle autorità della Jugoslavia post-bellica, che si incamminava lungo il cammino del socialismo jugoslavo, un esperimento che si sarebbe poi rivelato interessante ed inedito nella storia del socialismo realizzato, e che aveva conquistato la propria libertà a seguito di una eroica lotta di resistenza partigiana, una delle più impressionanti in Europa, contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti locali.
I proponenti avevano avanzato la richiesta di riabilitazione riferendosi alle decisioni delle autorità jugoslave come «infondate» dal punto di vista giuridico e amministrativo, ritenendo, di conseguenza, che la condanna del generale collaborazionista sarebbe stata decisa esclusivamente in forza di una decisione politica e per ragioni eminentemente ideologiche. Insomma, nella domanda era contenuto, implicitamente, anche il tentativo di una riabilitazione revisionistica, che puntasse a fare passare Milan Nedić come “vittima”, ingiustamente privato della libertà e sottoposto a processo politico. Peraltro, la decisione della corte giunge ad esito di un iter giudiziario lungo ed articolato, se è vero che il procedimento per la riabilitazione di Nedić è stato avviato, ormai, dieci anni fa, nel 2008, e che le udienze innanzi alla corte, alla presenza del pubblico, hanno avuto inizio solo verso la fine del 2015, trovando, peraltro, subito eco sulla stampa nazionale.
Non c’è dubbio, per la forma e per la tempistica, che l’intera operazione rappresenti un tentativo di riabilitazione postuma e si inscriva nel contesto di «revisionismo diffuso» nel dibattito e nella letteratura storiografica dei Paesi della ex Jugoslavia dopo la fine dell’esperienza socialista e la disgregazione della federazione multinazionale. Non si tratta peraltro di un caso isolato, non solo nell’Europa dell’Est, quando il venire meno delle esperienze di democrazia popolare e di provenienza antifascista, unito alla generale trasformazione che quei Paesi andavano affrontando e all’affievolirsi della memoria pubblica intorno agli eventi della resistenza, della liberazione e delle trasformazioni sociali post-belliche, ha dato nuova linfa a tentativi di ridefinizione delle memorie e riscrittura della storia, spesso ad uso e consumo delle nuove élite.
Lo stesso Milan Nedić è stata una delle figure più controverse della storia serba contemporanea: politico e generale, già nel 1941 fu nominato presidente del cosiddetto “Governo di Salvezza Nazionale” della Serbia, vale a dire il «governo fantoccio» delle autorità naziste d’occupazione del Paese, che avrebbe dovuto allineare il governo e l’amministrazione del Paese alle decisioni dell’Asse, sostenendone in particolare lo sforzo bellico, le campagne di occupazione e di aggressione, le deportazioni e lo sterminio. Ciononostante la sua figura è divenuta paradossalmente controversa negli anni Novanta e in particolare nel corso degli anni Duemila, quando nel dibattito pubblico sono comparse anche posizioni inclini a considerare Nedić non tanto un «nemico del popolo», criminale o traditore, quanto piuttosto un patriota, che ha difeso l’integrità della Serbia e ha combattuto per gli interessi del popolo serbo sotto occupazione della Germania nazista.
È ovviamente, come capo del governo serbo nel corso dell’occupazione, corresponsabile di attività legate alla Shoah, all’istituzione di campi di concentramento e della persecuzione di ebrei, comunisti e antifascisti. Né di poco conto il fatto che, all’indomani della liberazione della Serbia, si ritirò con i Tedeschi in Austria, cercando di organizzare anche una resistenza nazionalista alla nuova Jugoslavia socialista. Arresosi agli Alleati, fu consegnato alle nuove autorità jugoslave; condotto in arresto nel gennaio del 1946, si è suicidato, il 4 febbraio, prima che fosse aperto il processo per collaborazionismo, crimini di guerra e contro l’umanità.
Il direttore del Centro Simon Wiesenthal, Efraim Zuroff, a tal proposito, ha ricordato che il ruolo svolto da Nedić, come primo ministro dello “stato quisling” che ha servito gli interessi del Terzo Reich in Serbia, è di per sé una ragione sufficiente per respingerne la riabilitazione. Secondo quanto ha riportato la stampa, «l’inerzia di fronte all’esigenza di salvare serbi ed ebrei è una prova evidente della sua gravissima responsabilità nell’aver accettato di guidare un “governo fantoccio” che ha tradito i cittadini della Serbia» e ha servito gli interessi del Reich. 300.000 i serbi uccisi, 80.000, tra questi, nei campi di concentramento, nel corso della guerra mondiale e della occupazione della Serbia. Non meno di un milione e mezzo i morti jugoslavi nel corso della guerra, almeno 300.000 i partigiani di Tito caduti per la liberazione del Paese.