Zawaida è un villaggio di circa 2.200 abitanti a sud di Gaza, dopo Zahra, altro piccolo centro dove c’è un’ottima università pubblica, e prima di Deir el Balah, del cui governatorato fa parte, e dove si produce – unico al mondo – il miele di fiori di palma di altissima qualità, nonché dei wafer di pari qualità dei più famosi wafer europei. Fabbrica che ovviamente nel 2014 Israele graificò delle sue attenzioni armate perché la sua guerra contro l’economia gazawa prevedeva la distruzione di ogni struttura produttiva. Ma ora tornata a produrre. La fabbrica porta un nome ricorrente in Palestina, “Al Awda”. Un nome che è un sogno, un programma politico, una Risoluzione Onu che Israele calpesta al pari, per la verità, di tutte le altre. La Risoluzione n. 194 che dispone il diritto al ritorno nelle proprie terre dei palestinesi cacciati nel 1948 e dei loro discendenti. Al awda infatti significa “il ritorno”.
Il 35% degli abitanti di Zawaida è sotto i 18 anni ed il 65% è sotto i 35 anni, quindi in grado di aumentare ancora quella percentuale di nascite che terrorizza Israele. La Striscia di Gaza è molto stretta, e in alcuni punti tra il mare e il confine terrestre dell’assedio passano solo due chilometri,
quindi anche Zawaida affaccia sul mare ed anche al suo interno il terreno è sabbioso, ma nonostante ciò la zona è ricca di vegetazione. Spiccano, in questo periodo, non solo qui ma in tutta la Striscia, le acacie dai fiori rossi o arancio, le si trovano sparse qua e là per fare ombra, o in bellissime alberature stradali, e poi le palme, gli agrumi, gli olivi. Insomma toglietevi dalla mente che gli israeliani hanno fatto giardini nei deserti, qui i giardini, se Israele non succhiasse via l’acqua, sarebbero diffusi e spontanei.
Un campo di agrumi dalle chiome folte e brillanti, esattamente di “clementine” mi dicono con orgoglio, è proprio sotto le finestre del centro in cui si svolgono attività giovanili. E’ il centro Herat, che significa azione, movimento. E’ l’unico in questo villaggio ma è estremamente attivo. Nasce grazie all’aiuto di un’associazione svedese e cammina a grandi falcate animato da un gruppo di ragazzi e ragazze tra i venticinque e i trent’anni che organizzano attività per bambini di ogni tipo e di ottimo livello.
Il calcio qui la fa da padrone, ma anche nel resto della Striscia non si scherza! Infatti la seconda domanda che ti fanno (la prima è come ti chiami e da dove vieni) è se tifi Barcellona o Real Madrid. Guai a rispondere che per te è la stessa cosa! A questa risposta i tuoi interlocutori – grandi o piccoli non fa differenza – si dividono in due categorie: quelli che ti spiegano il loro punto di vista (drammaticamente in arabo) e quelli che ti guardano con aria di sufficienza e passano a chiederti, come domanda di riserva, di quale squadra italiana sei, non potendo accettare che tu sia proprio lontana dal gioco del calcio e lo capisci già all’entrata del Centro Herat.
Inutile fare gli snob, il calcio non può essere sottovalutato e allora ti ricordi che a Londra il Liverpool e il Chelsea erano in piazza con i loro stendardi a sostegno della causa palestinese. Glielo dici e recuperi qualche punto.
Il centro giovani di Zawaida ti accoglie così, con tre bellissimi bambini di fronte al murale che rappresenta un giovane calciatore. Poi entri e ti trovi un grande quadro, ormai un po’ scolorito, con la prima squadra del villaggio, grande onore per tutti perché pare che fosse composta da grandi calciatori.
E’ la prima formazione e risale al 1979. Due di quei primi giocatori sono morti piuttosto giovani. Majid Brecht, il portiere, per un cancro che non è riuscito a curare, Ismail Jawada per le ferite riportate durante il bombardamento israeliano di piombo fuso nel 2008/09, dopo aver subito inutilmente l’amputazione delle gambe. E’ così importante il calcio a Zawayda che appesi al muro si trovano, l’uno sotto l’altro, la squadra locale e il ritratto di Arafat.
Altre formazioni sono appese lungo le pareti e il disegno di un bambino, che rappresenta un sogno comune, è a sua volta attaccato al muro.
Ma il poster più significativo è senz’altro quello che mostra un calciatore palestinese che riesce a rompere le catene che gli bloccano le caviglie e dà un grande calcio a un pallone che arriva oltre il muro.
Ecco, comunque la si metta, anche nella leggerezza di una giornata di summer camp, è impossibile dimenticare assedio e occupazione. E dimenticarlo significherebbe accettare la normalizzazione della situazione data! Questo dà a una mano a capire perché Israele si è accanito in tante occasioni contro i calciatori, impedendogli di partecipare a match importanti o addirittura sparandogli alle gambe. E questo spiega anche perché nella Striscia di Gaza si è costituita una squadra di calcio di giocatori mutilati. Hanno deciso di giocare lo stesso nonostante la mutilazione dovuta ai crimini impuniti degli assedianti.
Bisogna fare attenzione a non confondere questo atteggiamento in qualche modo stoico con la rassegnazione per quanto successo al proprio corpo. No, questa è la tenacia resiliente oltre che resistente di chi non si arrende. Certo i traumi non si cancellano così e gli operatori del centro lo sanno bene. Il loro lavoro con i bambini punta proprio su questo, siano performances recitative, siano altre attività.
Chiedo quante scuole ci sono a Zawaida, visto l’altissimo numero di bambini e mi dicono mi dicono che nel villaggio ci sono due scuole pubbliche ed una privata. Nelle pubbliche si fanno i doppi turni e le classi sono di circa 40 scolari. Deve essere dura, eppure questi bambini, almeno quelli che oggi sono qui, sembrano capaci di essere felici.
I loro trainers, tutte persone assolutamente qualificate che tuttavia offrono il loro lavoro a livello volontario, hanno chiara una cosa molto importante: ogni attività deve aiutare a superare lo stress post traumatico che affligge un altissimo numero di bambini che hanno vissuto almeno due dei tre ultimi massacri israeliani. Per questo sviluppano le attività più diverse ma tutte in uno stesso quadro progettuale che tende a trasferire su attività artistiche e motorie quel disagio psicologico oscuro che lasciato crescere si trasforma in aggressività e autolesionismo.
Disegno, attività fisica, attività culturali, educazione ambientale (e ce n’è davvero bisogno) educazione stradale e tanti giochi interattivi, dal teatro delle ombre fino alla costruzione di cartoni con le storie inventate o ricordate dai bambini che alla fine diventano film di animazione riprodotti in video.
Aneen, Nuur, Mahmoud, Bilal, Rana,Ala, Ahmed e un altro bel gruppo di giovani, chi laureato in legge, chi in scienze motorie, chi in medicina, chi in scienze della comunicazione, chi in psicologia, chi in altro, ma tutti con una gran voglia di offrirsi con passione e competenza per lo sviluppo di questi ragazzini in un posto molto povero ma con grande dignità.
La giornata di summer camp cui sono stata invitata si conclude con la proiezione di alcuni brevi filmati creati dai bambini sotto la guida di Aneen. Storie vere o verosimili tratte dalla loro realtà. Disegnate, ritagliate, ricostruite in cartoni e quindi animate e filmate.
E in questi video c’è, immancabile, il dramma di vivere sotto l’assedio armato e i periodici bombardamenti arbitrari. Ma sono film a lieto fine e i ragazzini ridono tutti di cuore quando il filmino che ha per titolo “la scatola” e che sembra sia una storia vera e angosciante, si conclude con l’uscita da uno scatolone di un bambino piccolo dato per morto e pianto da un papà disperato che non era riuscito – nei cinque minuti di preavviso dati dai soldati israeliani – a portarlo fuori dalla casa che veniva bombardata. Ridono, i bambini, quando vedono il piccolo uscire dalla scatola vivo, ridono e si sentono liberati. Hanno tutti dagli 8 ai 12 anni e hanno vissuto tutti almeno il massacro di margine protettivo, quello in cui Israele, in soli 50 giorni, di bambini come loro, solo di bambini, ne ha uccisi circa 500.
In particolare, il progetto legato alla rappresentazione filmica del dramma, è un modo per superare il trauma e al tempo stesso crescere culturalmente, e le facce di questi bambini sembrano un programma orientato a un futuro che merita felicità.
Anche questa è Gaza, non solo quella che raccontano i profeti di sventura che vogliono ammansirla sotto l’innegabile gravità della crisi economica e trasformarne il popolo in un’accozzaglia di questuanti.
Ebbene, anche questa è Gaza. Quella che, nonostante la gravissima crisi, è capace di dare una lezione al mondo. Un mondo che non sempre riesce a capirla questa lezione, perché si ostina a vedere Gaza come un monolite governato da un partito religioso che ne blocca ogni creatività, mentre Gaza, al contrario, non è un monolite ma un caleidoscopio ed è questo, nel bene e nel male, che la rende speciale.
L’esperienza di Zawaida è parte di quel caleidoscopio capace di farti capire che in questo posto un po’ speciale, dietro a ogni angolo, si nasconde la Gaza che non ti aspetti.