Dalla cronaca si sono appresi molti casi di persone giustiziate parecchi anni dopo la sentenza, si tratta di adolescenti ormai adulti e di giovani divenuti vecchi nell’attesa. Credo che la maggior parte di questi detenuti provi terrore per la morte che incombe, e che il loro tempo sia assorbito dalla riflessione, dal pentimento e dalla speranza di una moratoria in extremis. La lunga attesa li trasforma inesorabilmente, essa stessa, col tormento che porta con sé, diviene espiazione del delitto commesso e dà la possibilità di un sincero ravvedimento, ma quel che più conta è la trasformazione che il tempo ha compiuto sul prigioniero: è diventato altro da sé, da quello che fu al momento del crimine commesso.
La celebre espressione eraclitea pànta rei, “tutto scorre” sintetizza la tesi secondo la quale il fiume sarebbe l’immagine del continuo ed eterno scorrere delle cose, di conseguenza nulla rimane mai identico a se stesso. Questo approccio alla realtà è ben applicabile alla condizione del condannato: egli è una persona che come tutte le altre non rimane mai identica a se stessa in tutte le parti del suo corpo, cervello compreso. Di conseguenza non è mai identica a sé neppure nel pensiero e in rapporto alle azioni commesse buone o cattive che siano. Giustiziando chi ha commesso un omicidio 10 o 20 anni fa, si uccide un’altra persona che spesso non ha più nulla a che fare con ciò che è stata.
Una bella frase che mi ha detto un amico musicista parlando di sé “Ascoltando la mia musica, rivedo il mio passato e scorgo tanti volti che, ora sono solo me” esprime in metafora poetica il medesimo concetto. Nel caso di omicidio non si tratta solo di rimemorare, ma anche di mettere in atto la punizione che deve essere eseguita al momento giusto. A cosa serve uccidere un uomo tanti anni dopo che ha commesso un grave errore e che oggi, grazie anche alla ri-elaborazione dell’accaduto è una persona diversa?
Trovo indispensabile sottolineare che la mia non è una posizione giustificazionista, ma una riflessione priva da contaminazioni moralistiche. In questo caso la pena capitale diventa un crimine efferato perché viene sacrificata, paradossalmente, la vita di chi non può essere considerato lo stesso colpevole che fu. La vita trasforma tutti noi anche se non necessariamente in meglio, ma attraverso le diverse tappe della crescita siamo quotidianamente donne e uomini nuovi, diversi da ciò che siamo stati. Sarebbe stato più logico procedere repentinamente all’esecuzione, al contrario è del tutto assurdo dare ad una persona il tempo per rielaborare, permettere che si trasformi e poi mettere in atto una pena ormai priva di valore che ha tutte le caratteristiche per essere definita una vendetta. Consideriamo anche l’aspetto dell’illusione costante con la quale convivono i condannati alla pena capitale, è l’illusione di chi vive nella speranza di sopravvivere e vedersi commutata la pena in ergastolo. L’assassino che è stato e l’uomo nuovo che è, insieme convivono nello stesso individuo, ma sono due persone che ormai si contrappongono e non possono essere giudicate con lo stesso criterio.
Non ci può essere Giustizia senza un giusto oggetto da giudicare, non può esserci pena che si applichi in modo cieco e che non tenga conto del valore ri-educativo della detenzione.