Udite udite! Gli Stati Uniti si ritirano dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite! Notizia di metà giugno che ha animato la stampa per un paio di giorni per poi semplicemente inserirsi nella lunga lista di iniziative ostili alla multilateralità di cui la presidenza americana Trump si sta fregiando. Che la ragione sia davvero la prevenzione-avversione dell’organo onusiano verso lo Stato di Israele, colpito in ogni sessione da dure critiche, come ha asserito la diplomazia statunitense? Tutto è possibile ma le risoluzioni di condanna a Israele non sono certo una novità: ci sono dai primi anni di avvio dell’ONU, ossia da quando è stata creato lo Stato sionista, e da quando il Consiglio per i diritti umani si chiamava Commissione per i diritti umani (ossia fino al 2006). Niente di nuovo quindi, neanche da parte dei “tifosi” dell’una e dell’altra parte del conflitto israelo-palestinese che pochi discorsi investono nel merito della controversia prediligendo invece slogan e messaggi spot.
C’è stato chi ha messo in relazione la decisione di Trump a una reazione al continuo declinare degli USA nelle valutazioni sui diritti umani, a causa delle politiche di separazione familiare dei migranti al confine col Messico o delle gravi violazioni commesse nella Guerra al terrorismo in primis con il trattamento dei prigionieri di cui il carcere di Guantanamo è la struttura più nota. Ma non sono solo questi elementi, più raccontati dai media: il rapporto presentato a metà dello scorso dicembre dal prof. Philip Alston, Speciale Rapporteur ONU sulla povertà estrema e sui diritti umani, ha documentato la riduzione del godimento di diritti economici e sociali nel Paese a stelle e strisce a dispetto della considerevole ricchezza del Paese. In sostanza il Consiglio per i diritti umani, che ha preso in esame il rapporto di Alston, ha mosso critiche all’amministrazione Trump per la consapevole esasperazione delle condizioni di vita della fascia più povera della società americana; dati sui livelli di ineguaglianza alla mano, infatti, negli Stati Uniti questi risultano i più alti del mondo occidentale. La risposta del presidente Trump non si è fatta attendere. Né ci si poteva aspettare qualcosa di differente da una generale delegittimazione delle istituzioni internazionali, con uno sberleffo per quello che è una analisi della diffusione della povertà in uno dei Paesi più ricchi al mondo. In una politica fatta di proclami e di botta e risposta gettati in pasto ai cinguettii di twitter non c’è spazio per affrontare il tema della polarizzazione delle ricchezze che, tra l’altro, è una questione che è stata riconosciuta dallo stesso Forum Economico Mondiale di Davos, l’incontro clou del sistema economico di mercato attuale, non da un covo di antagonisti al sistema.
Ecco che allora le parole della delegata statunitense all’ONU Nikky Haley in occasione del ritiro dal Consiglio per i diritti umani vanno ricondotte a questa dialettica vuota già in più occasioni cavalcata. “Voglio chiarire che questo passo non è un ritiro dal nostro impegno sul fronte dei diritti umani. Assumiamo questa iniziativa perché il nostro impegno su questo fronte non ci consente di continuare a far parte di un’organizzazione ipocrita ed egoista che deride i diritti umani”. Perché non rispondere nel merito delle critiche sollevate? Perché accusare di politicizzazione bieca un organismo per poi assumere proprio un tale atteggiamento in funzione antagonista?
La risposta non può che essere espresso in un termine: schizofrenica. Non c’è altro aggettivo per definire la politica dettata oggi dalla maggior parte delle cancellerie nazionali. Che si tratti di occupazione, diritti civili, produzione e commercio, accordi e migrazioni, le risposte sono formulate con effetti nel breve termine e percorse fin tanto che ricevano un facile consenso del cittadino/pubblico. Se così non è, si fa un passo indietro suffragati da altri dati in quel mare indistinto di fonti per i più dai quali attingere o, più banalmente, non si dà seguito ai grandi proclami effettuati in pompa magna e, di fatto, le “non-azioni” passano in sordina. Non si tratta di una tendenza tutta statunitense, tutt’altro.
Se quindi Trump si congratula con il neo-presidente messicano Andres Manuel Lopez Obrador twittando “Non vedo l’ora di lavorare con lui. C’è molto da fare che avvantaggerà sia gli Stati Uniti che il Messico!”, non dubitiamo che anche Obrador farà lo stesso. In effetti, dalla costruzione di un muro anti-migrantilungo il confine alla rinegoziazione dell’accordo commerciale di libero scambio (NAFTA), sono molte le questioni aperte tra i due Paesi nordamericani ed entrambi i presidenti sono desiderosi di strappare accordi più vantaggiosi per il proprio, come ampliamente annunciato ai media. Chi la spunterà?
Articolo di Miriam Rossi