L’eccesso di beni industriali e il passaggio dalla campagna alla città hanno alterato la nostra percezione della realtà. Da quando il nostro riferimento è diventato il supermercato è cambiata perfino la nostra idea di sicurezza alimentare. Finché troviamo gli scaffali pieni di mercanzie ed abbiamo abbastanza soldi per farle transitare al di là della cassa, ci pare che tutto funzioni. Tutt’al più ci allarmiamo se non troviamo la nostra marca preferita, mentre non reagiamo di fronte una prolungata siccità, una gelata primaverile, una forte grandinata di fine estate, eventi che invece gettano nella disperazione i contadini. Effetto paradosso di ciò che chiamiamo civiltà: avendoci allontanato dalla natura ci ha fatto perdere consapevolezza della sua importanza fino a farcela vivere come uno spazio da depredare.
Un segnale di questo nostro smarrimento è l’overshoot day che tutti gli anni ha una data ben precisa: l’8 agosto nel 2016, il 2 agosto del 2017, il 1° agosto nel 2018. Una data drammatica che ci dà la misura di quanto la nostra voracità superi la capacità di rigenerazione del pianeta. Di scena è la terra fertile, la parte di suolo planetario biologicamente attivo da cui dipende la nostra agricoltura, i nostri pascoli, i nostri boschi. In pratica la nostra vita come ben sintetizzano gli indios che la chiamano Pachamama, madre terra. Per il livello di consumi raggiunto dall’umanità, la quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno ha oltrepassato i 20 miliardi di ettari, che suddivisi per tutti i giorni dell’anno danno un consumo di 54 milioni di ettari al giorno. Il problema è che la terra fertile disponibile sul pianeta non va oltre i 12 miliardi di ettari ed arrivati al 1° di agosto ci accorgiamo di averla esaurita tutta. Per arrivare alla fine dell’anno ci mancano 152 giorni ed è un vero mistero capire come possiamo farcela senza terreno sotto i piedi. Ma per quanto possa sembrare strano, lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria, bensì di eccesso. A dimostrarci che i nostri consumi sono superiori alla terra fertile disponibile è l’accumulo di anidride carbonica, un gas che normalmente è eliminato dal sistema vegetale tramite quel processo miracoloso chiamato fotosintesi clorofilliana. Ma a questo mondo tutto ha un limite e anche la capacità del sistema vegetale di assorbire anidride carbonica non va oltre i 20 miliardi di tonnellate all’anno. Peccato che ne produciamo attorno a 36, per cui abbiamo tutti gli anni un eccesso di 16 miliardi che si accumula in atmosfera provocando effetto serra e cambiamenti climatici.
Nonostante l’impegno preso a Parigi nel 2015 di ridurre le emissioni di anidride carbonica per impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre i due gradi centigradi, l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha certificato che nel 2017 le emissioni sono aumentate del 1,4% come conseguenza dell’aumento di consumo di combustibili fossili: petrolio, gas, carbone. A causa di quest’aumento, l’overshoot day si è verificato un giorno prima rispetto al 2017. In effetti il 61% dell’impronta ecologica dell’umanità, così è definita la quantità di terra fertile utilizzata per sostenere i nostri consumi, è dovuta allo smaltimento d’anidride carbonica e se vogliamo ridurre la nostra impronta è principalmente su questa componente che dobbiamo intervenire. Noi italiani non facciamo eccezione. Per sostenere i nostri consumi abbiamo bisogno di 4,3 ettari di terra a testa, che è due volte e mezza la quota a cui avremmo diritto. E se guardiamo a cosa ci serve, scopriamo che per il 59% la impieghiamo per liberarci dall’anidride carbonica. Anche noi, dunque, dobbiamo concentrarci su questa sostanza, intervenendo su tre ambiti principali di emissione: la produzione di energia elettrica, il riscaldamento domestico, i trasporti. Per l’energia elettrica, la grande sfida è passare dalle centrali termoelettriche, alimentate a gas e carbone, a quelle rinnovabili, alimentate da sole, vento e corsi d’acqua. Già oggi il 32% della nostra energia elettrica proviene da fonti rinnovabili, ma dobbiamo fare molto di più. E se le politiche governative possono dare il contributo principale, qualcosa possiamo fare anche noi dal basso, ad esempio installando un pannello solare sul tetto di casa nostra. Il tema del riscaldamento è di più difficile soluzione, ma potremmo comunque cominciare coprendoci di più piuttosto che alzare i termosifoni, fino a sostituire le nostre apparecchiature con tecnologie moderne che diversificano le fonti energetiche. Quanto ai trasporti, se da una parte dobbiamo convertirci a maggior lentezza, con grande beneficio per la nostra salute e la nostra vita di relazione, le nuove parole d’ordine debbono essere razionalità e condivisione. Razionalità per adattare il mezzo alla distanza capendo che le piccole distanze le possiamo coprire a piedi e in bicicletta. E se oltre i dieci chilometri ci vuole il mezzo a motore, la soluzione non è l’auto privata ma il mezzo condiviso. Solo condividendo potremo permettere a tutti di soddisfare il bisogno di mobilità riducendo al minimo consumi energetici e inquinamento.
Per cui dobbiamo rivalutare non solo il treno e l’autobus, ma anche altre formule che possiamo attivare noi stessi dal basso, come il car-sharing, che significa acquisto dell’auto in comune, e il car-pooling, che è l’abitudine di non muoversi mai da casa senza aver chiesto al vicino se deve andare nella stessa direzione in modo da fare viaggiare l’auto a pieno carico. Piccoli cambiamenti di stili di vita che possono dare un contributo importante per la riduzione della nostra impronta ecologica senza rinunciare ai nostri bisogni. Cambiamenti che devono estendersi anche ad altri ambiti, per ridurre il consumo di terra fertile anche in altri settori, primo fra tutti quello agricolo. I nostri consumi alimentari contribuiscono al 29% della nostra impronta ecologica, ma con piccoli accorgimenti potremmo ridurla sensibilmente. Un modo è consumare meno carne perché il passaggio attraverso l’animale è estremamente dispendioso: ci vogliono 7 calorie vegetali per ottenere una caloria animale. Allora meglio soddisfare il nostro bisogno di proteine con i legumi. Per un etto di fagioli ci vogliono 3,7 metri quadri di terra, per un etto di carne 16,8: passando da una dieta carnea a una dieta vegetariana potremmo ridurre il consumo di terra fertile a fini alimentari almeno di un quarto. Ridurre la nostra impronta, dunque si può, senza dover tornare al tempo delle caverne. Basta un pizzico di semplicità.
Pubblicato su Avvenire