Non molti se ne rendono conto, purtroppo. Ma la natura offre all’uomo una serie di servizi che hanno un enorme valore, ma non di mercato. Ci sembrano gratuiti. E tali li considerano, ancora una volta purtroppo, anche gli economisti che aderiscono alla scuola classica.

Ma gratuiti non lo sono affatto, perché quasi tutti i beni che la natura ci offre sono soggetti a depletion (esaurimento) e/o a pollution (inquinamento). Sentono l’impronta umana. È nostro interesse e, insieme, nostro dovere morale dare un valore ai beni della natura che sfuggono all’unico sistema di valutazione universalmente conosciuto o, almeno, concretamente applicato: il valore di mercato. Perché solo se ne riconosciamo il valore possiamo utilizzarli, quei beni della natura, in maniera sostenibile.

Di recente gli economisti ecologici hanno trovato un metodo – perfettibile, per carità – per dare un valore ai beni della natura al di là di quello di mercato: lo chiamano willingness to pay (WTP), che potremmo tradurre in “disponibilità a pagare”. Quanti quattrini sei disposto a tirar fuori per una spiaggia pulita e per un’aria tersa e per fermare l’erosione della biodiversità e per contrastare i cambiamenti climatici? Chi studia il rischio sa bene quanto conti la sua percezione. Se noi percepiamo che una spiaggia sporca o un’aria inquinata o la perdita di biodiversità o i cambiamenti del clima sono un rischio, allora siamo disponibili a impegnarci per minimizzarlo. Il willingness to pay altro non è che un modo di quantificare la percezione del rischio o anche, se volete, a valorizzare i capitali della natura che non hanno un valore di mercato.

Ebbene, molte analisi, sia teoriche che empiriche, hanno dimostrato che la willingness to pay, la disponibilità a pagare per un bene naturale che non ha mercato cresce con il reddito. Con il reddito familiare, per una persona singola. Con il Prodotto interno lordo per una nazione. Più si è ricchi, più si è disposti a pagare. Ma la disponibilità a pagare e a riconoscere un valore ai beni della natura che non hanno un valore di mercato, dicono da tempo gli economisti ecologici, non cresce indefinitamente con il reddito. Al contrario, tende asintoticamente a un valore soglia. Non è sorprendente. A tutte le cose attribuiamo un valore massimo, che dipende sì dal nostro reddito, ma non solo da esso. Per una bella giornata al mare siamo disposti a pagare molto, ma non più di tanto. Per la sicurezza di un nostro figlio non c’è prezzo. È evidente che nell’attribuire un valore a beni – come una bella giornata al mare o a un figlio – intervengono altri fattori che non sono solo economici. Così è anche per la willingness to pay per i beni della natura. Quando attribuiamo (o non attribuiamo) loro un valore, entrano in gioco fattori economici ma anche fattori di altro tipo. Già, ma di che tipo?

Per quanto strano possa sembrare, pochi finora hanno tentato di rispondere a questa domanda. Alcuni, di recente, hanno tentato di farlo per via teorica. Ma solo ora abbiamo un’analisi che sia di tipo teorico che empirico: l’hanno resa pubblica nei giorni sulla rivista Ecological Economics il tedesco Moritz A. Drupp, dell’Università di Amburgo, e un gruppo di suoi collaboratori. Ed è una risposta inattesa, almeno in apparenza: oltre che dal reddito la willingness to pay dipende dal tasso di equità sociale del Paese in cui si vive. Il che significa che a parità di reddito, uno svedese o un tedesco (che vivono in paesi con alto tasso di uguaglianza sociale) è disponibile a pagare di più per un bene della natura di un americano o di un italiano, Paesi dove la disuguaglianza sociale è altissima.

La risposta è solo in apparenza sorprendente, perché è chiaro che la percezione dei beni comuni è maggiore proprio lì dove la ricchezza individuale è meglio distribuita. È evidente, concludono Drupp e colleghi, che per diminuire l’impatto umano sull’ambiente e consumare meno e con maggiore oculatezza i capitali della natura dobbiamo lavorare anche per abbattere l’indice di Gini, ovvero il tasso di disuguaglianza di una società.

Non è una proposta nuova, a ben vedere. In fondo lo sappiamo dai tempi del Rapporto Brundtland reso pubblico nel 1987 da una commissione indipendente proposta dalle Nazioni Unite che prendeva il nome dal suo presidente, la signora Gro Harlem Brundtland, primo ministro di Norvegia. Il rapporto sosteneva, né più e né meno, che non c’è sostenibilità possibile se non è, nel medesimo tempo, ecologica e sociale. E che il miglior modo per tutelare l’ambiente è costruire una società più giusta.

 

Pietro Greco
Laureato in chimica, giornalista scientifico e scrittore. È responsabile del Centro Studi di Città della Scienza e direttore della Rivista Scienza&Società. È autore di oltre venti monografie sulla scienza e sulla storia della scienza. È conduttore di Radio3Scienza. Collabora con le università Bicocca di Milano e Sapienza di Roma. Ha fondato, insieme ad altri, il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. È membro del consiglio scientifico di ISPRA. Collabora con la rivista Micron

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