Oggi siamo andati al nord, a poca distanza dal valico di Erez, quello regolarmente chiuso ai palestinesi e a chiunque Israele non conceda l’autorizzazione di varcarlo, perché Israele, lo ricordiamo, assedia questa fascia di terra palestinese e detiene le chiavi di questa immensa prigione che è la Striscia di Gaza.
Oggi chi scrive ha deciso di restare come testimone fino alla fine e quindi di non farsi allontanare dalla polizia palestinese preoccupata che gli stranieri (quali? il plurale è d’obbligo come concetto ma non come realtà fattuale) possano essere presi di mira dai cecchini israeliani per poi farne ricadere la colpa sull’autorità che governa la Striscia, cioè Hamas.
Dunque oggi, per impedire di essere allontanata quando i cecchini cominciano a sparare con pericolosa intensità, il mio ruolo di osservatrice partecipante – e referente – l’ho svolto indossando la blusa dell’UHCC, una delle associazioni di medici che offrono gratuitamente il loro soccorso ai feriti.
Nella grande tenda adibita ad ospedale da campo la sintonia, come già verificato altre volte, era perfetta e scavalcava i ruoli. L’infermiere, il medico famoso e importante, lo scout addestrato al primo soccorso e l’autista delle ambulanze erano tutti complementari e la situazione di emergenza creava tra loro un’intesa perfetta.
I primi feriti sono arrivati già poco dopo le tre del pomeriggio, quando ancora non c’era che qualche centinaio di persone e nessuna di queste era vicina alla barriera con cui Israele assedia la Striscia. Ma loro, i manifestanti, non sembravano sconvolgersi perché anche questo ormai è diventato routine e loro resistono nonostante il rischio che sanno di correre. Resistono ormai da 100 giorni.
Cento giorni era proprio il tema di questo venerdì, come si leggeva anche nei grandi cartelloni del punto di raccolta. Rivendicazione orgogliosa e celebrazione del centesimo giorno dal lancio della Grande marcia del ritorno e, insieme, sostegno alla popolazione di Al Ahmar, il villaggio beduino tra Gerico e Gerusalemme, minacciato di distruzione a partire dalla famosa scuola di gomme frequentata da 170 bambini che Israele vuole sloggiare.
Nonostante i circa 150 morti, tutti inermi, e gli oltre 15.000 feriti, anch’essi tutti inermi, nonostante i tentativi di bloccarla con la ricerca di compromessi con Hamas al quale ne era stata strumentalmente attribuita la paternità da Israele e dai suoi alleati, nonostante le minacce di Netanyahu e la ferocia dei suoi killers, la Grande marcia per ottenere il rispetto del diritto al ritorno previsto dalla Risoluzione Onu 194 e per ottenere la fine dell’illegale assedio, va avanti.
Anche oggi c’è stato un martire, poco più che un bambino, un quindicenne di nome Othman Rami Hellas che al pari di tanti altri suoi coetanei era andato a quella specie di grande festa resistente e pacificamente combattente che è l’appuntamento del venerdì con la grande marcia. Lo hanno ucciso a sudest di Gaza. Sparandogli per ucciderlo: in pieno petto.
Al nord, invece, cioè ad Abu Safia, nostro luogo di osservazione odierna, i ragazzini li hanno “soltanto” feriti. Uno con un tear gaz sotto l’occhio, e per fortuna era abbastanza lontano dalla jeep che ha lo ha lanciato per cui il colpo non l’ha ucciso sfondandogli le ossa del cranio come successo al povero ragazzo preso di mira alcune settimane fa e morto dopo sofferenze atroci.
Altri invece sono stati feriti alle gambe da proiettili “vivi”, come vengono chiamati quelli non ricoperti di gomma.
Ai giornalisti non è andata meglio e ad Abu Safia, dove il numero dei manifestanti oggi non era altissimo, ne hanno colpiti ben tre. Parliamo sempre di giornalisti palestinesi che insistono a mettere il giubbetto antiproiettile con la scritta PRESS convinti che sia una protezione invece di un target perché non vogliono ricordare che Israele non rispetta la legalità internazionale che condanna e in teoria vieterebbe di colpire sia la stampa che i soccorritori della Crocerossa e simili.
Abbiamo detto condanna e non “impedisce” come in altri casi capita di leggere, perché Israele è stato tutt’al più redarguito per aver commesso i suoi crimini ma mai, da parte della comunità internazionale, c’è stata una sanzione capace di impedire a questo Stato sui generis di commetterne altri.
Arrivare al campo “al Awda” di Abu Safia e vedere a sinistra dell’entrata un piccolo parco giochi con giostrine per bambini e, a destra, un bar mobile adorno di bandierine, fa pensare ad una festa di paese, ma gli occhi vanno in fretta sul lungo banner con tante foto, sono i ritratti dei martiri di quest’angolo del border e, subito dopo, senza nessun motivo apparente, si sente il primo sparo. No, non è una festa, e si percepisce la grande disparità tra questo popolo che chiede semplicemente il rispetto dei propri diritti e l’assediante, lo stesso che occupa l’intera Palestina, che impedisce con la forza delle armi la realizzazione del diritto.
Dopo le 17 i manifestanti si moltiplicano e le ambulanze cominciano a correre. Arrivano i primi feriti, alcuni sono semiasfissiati dal gas tossico, a loro si dà subito il ventolin, poi li si tratta diversamente a seconda della gravità della situazione e li si rimette quasi tutti in sesto in una mezz’ora. Il dr. Mahmoud è particolarmente attento a questi pazienti perché lui, un paio di mesi fa, fu colpito da uno dei gas che provocavano violente convulsioni per il tipo di sostanza che Israele, nelle sue sperimentazioni sulle “cavie” di Gaza, aveva inserito nei tear-gaz.
I cecchini sparano. I colpi sono secchi e “puliti”, li si sente e li si riconosce a grande distanza.
Arrivano feriti alle gambe, ai piedi alla mano, alla testa. Ci sono bambini. Quelli che hanno lasciato la giostrina e sono andati nella parte più esposta. Sempre nella propria terra, sempre entro la recinzione che li tiene chiusi come animali, ma i cecchini li hanno colpiti lo stesso.
Tra i tanti colpiti da proiettili ci sono anche due giornalisti, li hanno feriti alla coscia. Non si capisce se hanno sbagliato la mira volendoli colpire al pube, come visto in molti altri casi, o se volevano proprio colpirli nella parte alta delle gambe. Sono stati medicati e mandati in ospedale per l’operazione chirurgica.
L’ospedale Al Awda e l’Indonesian sono i due ospedali di riferimento per quest’area. Se i proiettili erano ad espansione e gli hanno frantumato l’osso forse perderanno l’uso della gamba colpita, altrimenti se la caveranno dopo l’operazione. Sempre che gli ospedali abbiano l’occorrente per operarli e curarli perché ormai lavorano in condizioni eroicamente disastrose.
Grazie alla blusa dell’UHCC ho potuto assistere fino all’ultimo sfogo delle jeep israeliane, ormai dopo il tramonto, le quali senza alcun motivo razionale seguitavano a lanciare lacrimogeni e li lanciavano proprio dove si trovavano le ambulanze per soccorrere i feriti. C’è una gratuità che sa di sadismo in tutto questo, come nei due lacrimogeni arrivati a pochi passi da noi prima che iniziasse la manifestazione e che eravamo a non meno di 500 metri dal confine. Come il lacrimogeno sparato contro il viso del bambino o contro la testa del vigile del fuoco o contro il petto di un altro giornalista.
Ma la marcia continua. Cambieranno tecnica probabilmente, ma non si fermeranno, perché i gazawi sono uno strano popolo, sono palestinesi di mare, hanno, nella loro storia, almeno 5000 anni di tentativi di sottomissione da parte di tutti i popoli passati su questa appetibile porta che introduce all’Oriente e apre verso l’Occidente, tentativi mai del tutto riusciti.
Non saranno certo gli israeliani a sottometterli. Gli israeliani gli hanno mandato i condom più o meno in regalo invitandoli sprezzantemente a fare meno figli e i gazawi hanno pensato bene di farne un uso alternativo restituendogli egli in volo con una fiammella che era la risposta all’irrorazione di glifosato sui loro raccolti da parte degli aerei con la stella di Davide. Hanno scoperto l’uso alternativo degli aquiloni che con una fiammella hanno messo in crisi la potente aviazione israeliana. L’unica cosa che non sono ancora riuscita a fare, i gazawi e i palestinesi in genere, è creare una rete comunicativa capace di contrastare la straordinaria macchina propagandistica di Israele, quella capace di far credere all’opinione pubblica che gli aquiloni fiammeggianti che vogliono rompere l’assedio illegale e che, cadendo, possono dar fuoco a un campo sono terrorismo, mentre distruggere i campi con diserbante cancerogeno, uccidere e ferire centinaia e migliaia di inermi, chiudere un popolo in gabbia, sono invece azioni democratiche.
La giornata si chiude con un bilancio complessivo, lungo tutto il confine, di 220 feriti e il piccolo martire che voleva essere libero. Intanto, mentre le ultime ambulanze vanno via e dalle jeep degli assedianti seguitano a partire lacrimogeni non difensivi ma offensivi, un aquilone attraversa il confine e due o tre gruppetti di palloncini troppo trasparenti perché la fotocamera possa riprenderli, si levano in cielo e il vento li porta a seguire l’aquilone, anche loro verso il confine. Anche loro trasportano una fiammella.
E una lotta di logoramento, tra chi non ha nulla da perdere e vuole la libertà e conta sul tempo e su quelle fiammelle e chi non vuole concederla contando sulla forza delle proprie armi e sulle complicità internazionali.
La marcia comunque continua…