In Myanmar non si sta consumando solo il dramma dei Rohingya, il popolo “che nessuno vuole” dello stato del Rakhine, da dove nel 2012 è partita un’ondata di violenze guidata dalla popolazione (talvolta con la complicità dell’esercito), che ha fatto centinaia di vittime e migliaia di profughi tra questa minoranza mussulmana. Detestati dalla maggioranza buddista e dal Governo i Rohingya sono considerati alla stregua di immigrati clandestini del Bangladesh, come gli Jingpo, una popolazione in maggioranza cattolica che conta circa duecentomila individui e che risiede nella regione del Kachin, nel Myanmar settentrionale. Il 9 giugno 2011, le truppe dell’esercito birmano hanno condotto un’offensiva militare contro i ribelli in armi del Kachin Independence Army (Kia) nei pressi di una centrale idroelettrica cinese a Momauk. Gli scontri hanno scatenato la ripresa di un conflitto interrotto da un cessate il fuoco durato 17 anni tra il Governo birmano e la Kachin Independence Organization (Kio), braccio politico del Kia che riflette le aspirazioni autonomiste manifestate non solo con le armi da questa minoranza etnica e religiosa.
Secondo i dati ufficiali resi pubblici nelle scorse settimane dal Kio e da diverse organizzazioni locali, tra i due schieramenti si sono verificati oltre 3.800 scontri armati dal giugno 2011 ad oggi e la situazione non è migliorata durante il governo della National League for Democracy (Nld) della leader democratica Aung San Suu Kyi, dal 2016 Consigliere di Stato della Birmania, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente, ma a detta di molti per ora volutamente incapace di difendere i diritti delle minoranze del Paese. In due anni e mezzo dalla vittoria elettorale dell’Nld, infatti, vi sono stati più di 1.300 gli scontri del Tatmadaw (l’esercito birmano) con il Kia e molti attivisti internazionali e nazionali per la pace e i diritti umani hanno denunciano uccisioni extragiudiziarie, incarcerazioni arbitrarie, sfollamenti e stupri etnici ai danni della popolazione Jingpo del Kachin. Per Caritas Myanmar sono circa 150mila i residenti sfollati da quando è ripresa la guerra civile: “Tra questi, 130mila persone vivono nei 165 campi per sfollati interni situati nel Kachin e nel nord dello Stato etnico confinante, lo Shan, mentre circa 20mila sono ospitate in comunitàdi accoglienza”.
Nel solo 2018 cinquanta villaggi sono stati abbandonati e gli abitanti costretti a trovare rifugio in campi profughi, in famiglie ospitanti o nelle case dei parenti. “Nelle recenti fughe 13 persone sono morte e 39 hanno riportato gravi ferite per via delle mine antiuomo, di cui sono disseminate vaste aree del territorio”. Tra i nuovi sfollati interni i funzionari del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) hanno raccolto testimonianza drammatiche. Di solito, ha riferito l’ohchr “agli abitanti dei villaggi nelle aree interessate dal conflitto è consentito di fuggire e mettersi in salvo. Tuttavia, questa volta l’esercito governativo non ha permesso che i civili sfollati potessero mettersi in salvo. Le Forze armate di Naypyidaw trattengono molti di loro in ostaggio vicino alle basi militari, come scudi umani, in modo che il Kia non le attacchi a spese di vite civili”.
Esponenti ed organizzazioni della società civile hanno condotto diversi tentativi di salvataggio, ma il solo intervento di successo è stato compiuto dal ministro per il Benessere sociale di Naypyidaw. Su 1.500 sfollati rimasti intrappolati negli scontri armati, circa 150 sono stati autorizzati a recarsi nei campi profughi. Da quasi due mesi, più di 1.300 profughi sono trattenuti in ostaggio dall’esercito, sotto la pioggia tropicale ed il gelido clima montuoso. Un recente rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha) rivela che, durante l’ultima fase del conflitto in Kachin, tra aprile e maggio gli sfollati interni nella regione “sono aumentati esponenzialmente”. Nonostante la situazione l’assistenza umanitaria per gli sfollati è diminuita nel corso dell’anno e molti soffrono le conseguenze dei tagli per l’indifferenza mediatica della crisi che ha messo le agenzie Onu, le Ong e le organizzazioni di ispirazione religiosa come la Caritas nell’impossibilità di raccogliere fondi per sostenerli. Per la Caritas “Il morale e le speranze di bambini, donne, giovani e anziani sono fiaccate dai continui scontri armati e della diminuzione degli aiuti, mentre la fatiscenza dei rifugi, il clima rigido e le condizioni atmosferiche estreme condizionano la dura vita nei campi e meriterebbero più attenzione da parte della comunità internazionale”.
A fine maggio migliaia di cattolici hanno sfilato per le strade di Myitkyina, capitale dello Stato di Kachin, in nome della pace in Myanmar e per chiedere la liberazione degli sfollati. Ad inizio giugno il Movimento Giovanile Kachin ed altre organizzazioni della società civile hanno organizzato, sempre a Myitkyina, un momento di preghiera che ha coinvolto la chiesa cattolica ed altri leader religiosi. Nonostante le azione di protesta siano state all’insegna della nonviolenza, per la Caritas “le Forze di polizia del Myanmar hanno intimidito e arrestato molti dei partecipanti”. Manifestazioni sono state organizzate anche in altri Stati e regioni etniche, come lo Stato di Kayah e la regione di Bago e molte organizzazioni per i diritti civili come la Karen Women Association (Kwa), con sede in Thailandia, hanno chiesto che il governo del Myanmar intervenga e interrompa i processi ai danni dei civili. Nelle scorse settimane la rappresentanza dell’Unione europea in Myanmar e le Nazioni Unite hanno espresso la loro preoccupazione per gli arresti di manifestanti pacifici. L’8 aprile scorso, in seguito a una missione di sei giorni in Myanmar, il segretario generale aggiunto dell’Unocha Ursula Mueller, ha definito il conflitto in Kachin “una crisi umanitaria dimenticata”. Come darle torto…