Così esprime la sua opinione l’EZLN, riferendosi alle recenti elezioni presidenziali in Messico. In un lungo comunicato analizzano l’elezione come se si trattasse di una finalissima di calcio, concludendo “non importa se la squadra perde o vince, il padrone vince sempre”. Alla fine convocano per agosto un incontro per condividere le proposte di “passi da seguire” nell’organizzazione dei popoli e a “coloro che considerano l’arte come aspirazione e aspirazione” al CompARTE [gioco di parole tra la parola arte e la parola comparte, condividere, N.d.T.] per la vita e la libertà.

 

Il gran finale

Vossia arriva al grande stadio. “Monumentale”, “colosso”, meraviglia architettonica”, “il gigante di cemento”, qualificativi consimili si ripetono nelle voci degli speaker che, nonostante le diverse realtà che esprimono, concordano nel mettere in risalto la superba costruzione.

Per arrivare al grandioso edificio, vossia ha dovuto farsi strada tra macerie, cadaveri, sporcizia. I più in là negli anni raccontano che non è stato sempre così: che prima, intorno alla gran sede sportiva si ergevano case, quartieri, negozi, edifici, fiumi e ruscelli di gente che uno schivava finché andava quasi a sbattere il naso contro al gigantesco portone, che si apriva solo ogni tanto, e nella cui insegna si leggeva: “Benvenuto al Gioco Supremo”. Sì, “benvenuto”, in maschile, come se ciò che avveniva dentro fosse cosa soltanto da uomini; come prima i sanitari, le cantine, la sezione di macchine e attrezzi dei negozi specializzati… e, ovvio, il calcio.

Tuttavia, a volo d’uccello l’immagine vista potrebbe benissimo essere un facsimile di un universo che si contrae, lasciando alla sua periferia morte e distruzione. Sì, come se il Grande Stadio fosse il buco nero che assorbe la vita attorno a sé e che, sempre insaziabile, erutta e defeca corpi senza vita, sangue, merda.

Da una certa distanza, si può apprezzare l’immobile nella sua totalità, sebbene ora le sue erronee disposizioni architettoniche, le sue falle strutturali nei calcestruzzi e nelle strutture, le sue decorazioni cangianti secondo il gusto della squadra vincitrice di turno, appaiano coperte da una tramoggia che abbonda di richiami all’unità, la fede, la speranza e, ovvio, la carità. Come se così si ratificasse la somiglianza tra culti religiosi, politici e sportivi.

Vossia non sa molto di architettura, ma sente fastidio per questa insistenza quasi oscena su una scenografia che non coincide con la realtà. Colori e suoni che proclamano la fine di un’era e il passaggio al domani anelato, la terra promessa, il riposo che non promette più nemmeno la morte (si dice vossia mentre ricapitola le proprie conoscenze, le persone scomparse, assassinate, “esportate” in altri inferni, e i cui nomi si diluiscono in statistice e promesse di giustizia e verità).

 Come nella religione, la politica e gli sport, ci sono gli specialisti. Mentre vossia non sa molto di nulla. La infastidiscono gli incensi, i salmi e le lodi che popolano quei mondi. Vossia non si sente capace di descrivere l’edificio, perché vossia bazzica altri mondi, e i suoi lunghi e tediosi cammini percorrono quello che, dai superbi palchi dell’edificio, si potrebbe chiamare il “sottosuolo”. Sì, la strada, la metro, il bus collettivo, il veicolo in abbonamento o pagato a carico di altri abbonamenti (un debito sempre posposto e sempre crescente), le strade sterrate, i sentieri sperduti che portano alla milpa, alla scuola, al mercato, al tianguis, al lavoro, agli sbattimenti, al diavolo.

Vossia si inquieta, sì, ma l’ottimismo dentro al grande stadio è maggioritario, travolgente, s-o-p-r-a-f-f-a-t-t-o-r-e, e tracima fino a fuori.

  Come in quella canzone che vossia ricorda vagamente, lo spettacolo che è già finito, ha unito “il nobile e il villano, il proboviro e il verme”. In quei momenti l’uguaglianza è stata regina e signora, non importa che al fischio finale ciascuno sia tornato al suo posto. Basta l’oblio che ciascuno è quel che è. Di nuovo, “e con la nausea / torna il povero alla sua povertà, /torna il ricco alla sua ricchezza /e il signor curato alle sue messe/ si son svegliati il bene e il male/ la volpe povera torna al portone, /la volpe ricca torna al roseto, /e l’avaro alle divise”* (*Citazione di “Fiesta” di J.M. Serrat, N.d.T.). E il fatto è che, come vossia sa dallo strepito e dalle immagini, la partita è finita. Il gran finale tanto atteso e temuto si è consumato, e la squadra vincitrice riceve, con falsa modestia, il clamore degli spettatori. “Il rispettabile pubblico”, dicono portavoce e cronisti. Sì, così si riferiscono a chi ha partecipato attivamente con grida, cori, urrà, insulti e diatribe, dai gradoni, come spettatori a cui soltanto nel gran finale è permesso simulare che sono di fronte al pallone e che il loro grido è il calcio che dirige la sfera “in fondo al sacco”.

Quante volte lo ha sentito vossia? Molte, val la pena contarle? Le sconfitte reiterate, la promessa che alla prossima sì, che l’arbitro, che il campo, che il clima, che la luce, che la linea, che la strategia e la tattica, che eccetera. Almeno l’illusione attuale allevia questa storia di sconfitte… a cui dopo si aggiungerà la prevista disillusione.

Nei dintorni del recinto, una mano maliziosa ha tracciato, sul superbo muro che circonda lo stadio, un motto: “MANCA LA REALTA’”. E non paga della sua eresia, la mano ha aggiunto tratti e colori alle lettere, tanto variegati e creativi che non sembrano nemmeno dipinti. Non è più un graffito, ma un’iscrizione fatta a scalpello, che macchia il cemento. Un’orma indelebile nell’apatica superficie del muro. E, per colmo, l’ultimo tratto della “A” finale ha aperto una crepa che si allarga fino al basamento. Un cartello, rotto e scolorito, con l’immagine di una felice coppia eterosessuale, con un paio di figli, bambino e bambina, e l’intestazione “La Famiglia Felice”, cerca invano di occultare la fenditura che, forse per un effetto ottico, sembra graffiare anche la felice immagine della famiglia felice.

Ma neppure il frastuono interno che fa vibrare le pareti dello stadio riesce a nascondere la crepa.

Dentro, sebbene la partita sia terminata, la moltitudine non abbandona lo stadio. Anche se ben presto sarà di nuovo espulsa verso la valle di rovine, la moltitudine imbellettata fa eco delle proprie grida e scambia aneddoti: chi ha gridato più forte, chi ha fatto lo scherzo migliore (si dice “meme”), chi ha divulgato la bugia di maggior successo (il numero di “like” determina il grado di verità), chi lo sapeva fin da subito, chi non ha mai dubitato. Nelle tribune, alcuni, alcune, alcunei, scambiano analisi: che “hai visto che gli avversari hanno cambiato casacca a fine primo tempo e ora festeggiano la vittoria coloro che hanno iniziato l’incontro con la casacca della squadra opposta?”; che “l’arbitro (il sempiterno “arbitro venduto”) ora sì che ha fatto il suo dovere perché la vittoria della squadra ripulisce ed eleva tutto”. Alcuni, alcune, alcunei, più scettici, vedono con sconcerto che, tra coloro i quali celebrano il trionfo, ci sono quelli che hanno giocato e giocano in squadre rivali. Cercano di capire, ma non riescono. O capiscono, ma non è ora di capire, ma di festeggiare. Perché sia chiaro, una lavagna gigante lampeggia con lo slogan visuale di moda: “Proibito Pensare”. La notte ha posposto il suo arrivo, pensa vossia. Ma si rende conto che sono i riflettori e i fuochi d’artificio che simulano chiarore. Chiaro, un chiarore selettivo. Perché là, in quell’angolo, alcuni gradoni sono crollati e le squadre di soccorso non accorrono, occupate come sono nel festeggiamento. La gente non si chiede quanti morti, ma di quale squadra erano tifosi. Più in là, in quell’altro angolo oscuro, una donna è stata aggredita, violentata, sequestrata, assassinata, fatta sparire. Ma, suvvia, è solo una donna, o un’anziana, o una giovane, o una bambina. I media, sempre in sintonia con quel che succede, non chiedono il nome della vittima, ma se aveva addosso la maglietta di una squadra o dell’altra. Ma non è tempo di amarezze, bensì di festa, di brindisi, di f-i-n-e-d-e-l-l-a-s-t-o-r-i-a caro mio, dell’inizio di un nuovo campionato. Fuori l’oscurità sembra il colophon pittorico per la zona devastata. Sì, pensa vossia, come uno scenario di guerra.

La confusione richiama la sua attenzione. Vossia cerca di prendere le distanze per comprendere l’impatto di questo gran trionfo della sua squadra preferita… mh… era la sua squadra preferita? Non ha più importanza, il trionfatore è sempre stato e sarà sempre la squadra favorita dalle maggioranze. E, chiaramente, tutti sapevano che il trionfo era inevitabile, e nelle tribune si susseguono le spiegazioni logiche: “sì, non era possibile alcun altro risultato, solo quello della coppa ubriacante che incorona i colori della squadra favorita”.

Vossia cerca, senza riuscirci, di far suo l’entusiasmo che inonda le tribune, i palchi, e sembra arrivare fino al punto più alto della costruzione, dove ciò che si intuisce è un lussuoso appartamento, che riflette nei suoi vetri polarizzati le luci, le grida e le immagini.

Vossia percorre le tribune con difficoltà, la gente gremisce i corridoi e le scale. Cerca qualcosa o qualcuno che non la faccia sentire straniero, cammina come un extraterrestre o un viaggiatore del tempo che sia atterrato in un calendario e una geografia sconosciuti.

Si ferma un po’ dove due persone di una certa età guardano con attenzione una specie di tavola. No, non si tratta di scacchi. Ora che vossia si è sufficientemente avvicinato, vede che si tratta di un rompicapo con soltanto alcuni pezzi inseriti e con la figura finale neanche abbozzata.

  Una persona sta dicendo all’altra: “Be’, no, non mi sembra finzione. Dopo tutto, il pensiero critico deve partire da un’ipotesi, per quanto possa sembrare campata per aria. Ma non deve abbandonare il rigore per confrontarla e verificare se procede, o se bisogna cercare altri appigli”. E, prendendo uno dei pezzi del rompicapo, questa persona lo mostra e dice: “per esempio, può darsi, a volte, che il piccolo aiuti a comprendere il grande. Come se in questa piccola parte potessimo divinare o intuire la figura completata”. Vossia non ascolta ciò che segue, perché i gruppi vicini gridano contro questa strana coppia e zittiscono le loro parole. Qualcuno le ha passato un volantino. “Desaparecida”, si legge, e un’immagine di una donna la cui età vossia non può determinare. Un’anziana, una donna matura, una giovane, una bambina? Il vento le strappa di mano il volantino e il suo volo si confonde con le serpentine e i coriandoli che annebbiano la vista. E parlando di bambine…

Una bambina, piccola, di pelle oscura, dai vestiti stravaganti da quanto sono colorati e adornati, guarda lo stadio, le tribune, le luci multicolori, i sorrisi di vincitori e vinti, allegri i primi, maliziosi i secondi.

La bambina ha un dubbio. Si intuisce dall’espressione del suo viso, dal suo sguardo inquieto.

Vossia si sente generoso, alla fin fine vossia ha vinto… mh… ha vinto? Be’, non importa. Vossia si sente generoso e, sollecito, chiede alla bambina cosa cerca.

La bambina le risponde: “il pallone”. E, senza girarsi a guardarla, continua a setacciare con lo sguardo la gran costruzione.

“Il pallone?”, chiede vossia come se la domanda venisse da un altro tempo, da un altro mondo.

La bambina sospira e aggiunge: “be’, magari lo ha il padrone”.

“Il padrone?”

“Sì, il padrone del pallone, e dello stadio, e del trofeo, e delle squadre, e di tutto questo”, dice la bambina mentre con le sue manine cerca di abbracciare la realtà concentrata nel grande stadio.

Vossia cerca di trovare le parole per dire alla bambina che quelle domande non fanno al caso, o cosa, a secondo, ma allora vossia ricorda… o per meglio dire non ricorda di aver visto il pallone. Nella sua mente appare un’immagine sfocata, crede che a inizio partita, ci fosse la sfera con le sue toppe marchiate dai “nostri amabili patrocinatori”. Non sa collocarlo nemmeno nei gol segnati.

Ma lì c’è la lavagna del punteggio, e la lavagna segna la realtà che importa: il tale ha vinto, il tale ha perso. Nessun segnapunti indica chi è il padrone né del segnapunti stesso né tantomeno del pallone, delle squadre, delle tribune, delle “videocamere e microfoni”.

Inoltre, il segnapunti non è un segnapunti qualsiasi. E’ il più moderno che esiste ed è costato una fortuna. Include il VAR per aiutare i suoi impiegati a sommare o conteggiare punti alla lavagna, e per le ripetizioni istantanee o reiterate di quando “insieme abbiamo fatto la storia”. E il segnapunti non segna i gol, ma le grida. Vince chi grida di più, e allora chi ha bisogno del pallone?

Ma allora vossia passa in rassegna i suoi ricordi e nota qualcosa di strano: minuti prima della fine della partita, gli ultras, i fan, la masnada della squadra contraria sono rimasti in silenzio. E le grida dei seguaci della squadra ora trionfante non hanno avuto rivale. Sì, molto strana questa subitanea ritirata. Ma ancora più strano è che, quando sulla lavagna del segnapunti non si riflettevano ancora i risultati, nemmeno i parziali, la squadra contraria è tornata in campo solo per congratularsi col trionfatore… che ancora non era il trionfatore. Negli alti e lussuosi palchi dello stadio si è imposto il baccano e i colori dei festoni erano già quelli della squadra vincitrice. A che ora hanno cambiato la propria preferenza? Chi ha vinto davvero? E sì, chi è il padrone del pallone?

 “E perché vuoi sapere chi è il padrone?”, chiede vossia alla bambina, perché le pare che, nonostante i suoi dubbi, è tempo di fischietti e raganelle, e non di domande stupide. “Ah, perché lui non perde. Non importa che squadra vinca o perda, il padrone vince sempre”. Vossia si incomoda al dubbio che ciò implica. E si incomoda ancor di più a vedere coloro che dichiaravano che la squadra ora vincitrice avrebbe portato disgrazie, ora celebrare un trionfo che, appena alcune ore prima, non era il loro. Perché non si vede che hanno perso, bensì festeggiano come se il trionfo fosse loro, come se dicessero “abbiamo vinto ancora”.

Vossia è sul punto di dire alla bambina che lasci da parte l’amarezza, che magari ha le sue cose, o la depressione, o non capisce niente, in fin dei conti è solo una bambina, ma in quel mentre il rispettabile prorompe in un urlo: la squadra vincitrice torna in campo per ringraziare il rispettabile per il suo sostegno. La gente-gente continua a stare sugli spalti e contempla, rapita, i moderni gladiatori che hanno sconfitto le bestie… un momento! Non sono le bestie quelle là che ora abbracciano e festeggiano e si mettono in spalla la squadra vincitrice?

Vossia è rimasto pensieroso su ciò che ha detto la bambina. E allora ricorda, inquieto, che la squadra contraria, conosciuta per il suo gioco rude, i suoi trucchi e i suoi inganni, ha abbandonato la partita giusto prima che risuonasse il fischio finale. Sì, come se temesse che la sua stessa inerzia potesse farla vincere (con l’inganno, ovvio) e, per evitarlo, si fosse ritirata completamente. E con essa, fossero scomparsi i suoi tifosi, i suoi fanatici, le sue, ora vossia lo ricorda, contate bandierine e bandiere.

Il baccano continua. Sembra che alle tribune non importi l’assurdità che sta avvenendo al centro del campo, dove il podio aspetta la premiazione finale.

Vossia si fa eco della domanda della bambina e, con timidezza, chiede a sua volta:

“Chi è il padrone del pallone?”, ma il grido di massa ingoia la sua domanda, e nessuno la ascolta.

La bambina la prende per mano e le dice: “Andiamo, dobbiamo uscire”.

“Perché?”, chiede vossia.

E la bambina, indicando la base del grande edificio, risponde:

“Sta per cadere”.

Ma nessuno sembra rendersene conto… Un momento, nessuno?

(continua?)

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In base a quanto sopra esposto, la Commissione Sesta dell’EZLN invita le e gli individui, gruppi, collettivi e organizzazioni che hanno appoggiato il CIG e, chiaramente, che pensano ancora che i cambiamenti importanti non vengono mai dall’alto, ma dal basso (sempreché non abbiano mandato il loro bigliettino d’adesione o di richieste al capoccia futuro) a un:

Incontro delle reti d’appoggio al Consiglio Indigeno di Governo

Con la seguente proposta di ordine del giorno:

.- valutazioni del processo di appoggio al CIG e alla sua portavoce Marichuy, e della situazione secondo la prospettiva di ogni gruppo, collettivo o organizzazione.

.- proposte per i passi successivi.

.- proposte per tornare a consultare i propri gruppi, collettivi, organizzazioni su quanto stabilito.

Arrivo e registrazione: giovedì 2 agosto 2018; registrazione e attività nei giorni venerdì 3, sabato 4 e domenica 5 agosto.

Per registrarsi come partecipante all’incontro delle reti, l’indirizzo è:

encuentroredes@enlacezapatista.org.mx

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Inoltre, le comunità indigene zapatiste invitano chi ha l’arte come vocazione e anelo al

CompARTE PER LA VITA E LA LIBERTA’

“Dipingi chioccioline ai malgoverni passati, presenti e futuri”

Dal 6 al 9 agosto 2018

Arrivo e registrazione: quando potete dal 6 al 9 agosto.

Chiusura il giorno 9, 15° anniversario della nascita dei caracoles zapatisti.

Il programma sarà in base a chi si iscriverà, ma è certo che ci saranno musiciste e musicisti, teatranti, ballerine e ballerini, pittrici e pittori, scultori, declamatori, eccetera, delle comunità zapatiste in resistenza e ribellione.

Per registrarsi come partecipante e/o assistente, l’indirizzo è

asistecomparte2018@enlacezapatista.org.mx

participacomparte2018@enlacezapatista.org.mx

Tutto nel caracol di Morelia (dove si è tenuto l’incontro delle donne che lottano), nella zona Tzotz Choj, terra zapatista in resistenza e ribellione.

Molta attenzione:

Portate il vostro bicchiere, piatto o cucchiaio, perché le donne che lottano hanno consigliato già di non usare usa e getta che contaminano, oltre a lasciare un mondezzaio. Non fa mai male portare una propria torcia (o lampada portatile), un proprio coso da mettere fra il degno suolo e il vostro degnissimo corpo, o una tenda. Un impermeabile o nylon o equivalente in caso di pioggia. Le vostre medicine o cibo speciale se vi servono. E qualsiasi altra cosa che poi vi dovesse mancare e, quando ci lascerete le vostre critiche, noi potremo rispondere: “vi avevamo avvisato”. Per le persone di una certa età, “di giudizio” come diciamo qua, vedremo, per quanto possibile, di fornire alloggi in qualche luogo speciale.

Nota: sarà consentito l’accesso a uomini e ad altre minoranze.

Per la Comissione Sesta dell’EZLN

Subcomandante Insurgente Moisés           Subcomandante Insurgente Galeano

Messico, luglio 2018

P.S.: No, noi zapatiste e zapatisti NON ci uniamo alla campagna “per il bene di tutti, prima le ossa”. Potranno cambiare il capoccia, i maggiordomi e i caporali, ma il proprietario continua a essere lo stesso. Ergo…

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano