La Corte Costituzionale ecuadoriana ha rigettato l’ultima possibilità di ricorso del colosso petrolifero. La Chevron dovrà ora ripristinare lo stato originario dell’area amazzonica, devastata da 25 anni di sfruttamento intensivo, e risarcire gli abitanti di quei luoghi per un totale di più di 9 miliardi di dollari.
Li chiamano “afectados” (in italiano: colpiti, danneggiati). Sono i quasi 30mila contadini abitanti dell’area di Lago Agrio, nelle provincie di Orellana e Sucumbios, una zona dell’Ecuador tristemente famosa come la Chernobyl dell’Amazzonia. Sono uniti nella UDAPT (Unione Degli Afectados per le operazioni Petrolifere della Texaco) e da 25 anni combattono per ottenere giustizia contro i danni ambientali prodotti dalla compagnia petrolifera Texaco, acquisita dalla Chevron nel 2001. In quest’area nel Nord-Ovest del paese, non distante dalla città di Nueva Loja, le attività estrattive della Texaco hanno contaminato quasi 500mila ettari della foresta pluviale amazzonica tra il 1964 e il 1990.
Quello di Lago Agrio è considerato uno dei più gravi disastri ambientali del mondo. 80 mila tonnellate di rifiuti tossici e 60 milioni di litri di petrolio furono infatti sversati nei corsi d’acqua e nelle circa 900 fosse a cielo aperto che sono tuttora visibili nell’area, distruggendo un patrimonio inestimabile di biodiversità e facendo estinguere due intere popolazioni indigene a causa del cancro e delle altre malattie diffusesi nella zona.
Nel 1993, un gruppo di appena 15 indigeni iniziò una class-action nei confronti della Texaco e nel 2013, con l’ultima di tre storiche sentenze, la Chevron – nel frattempo subentrata alla Texaco – è stata condannata al pagamento di un totale di 9,5 miliardi di dollari per il ripristino delle condizioni ambientali originarie dell’area e per la messa in opera di un programma di cure mediche in favore degli afectados.
Ci sono voluti 5 anni per venire a capo dei ricorsi presentati dalla multinazionale del petrolio agli organismi giudiziari del paese sudamericano, l’ultimo dei quali alla Corte Costituzionale. Nell’udienza dello scorso 22 maggio a Quito, l’avvocato della compagnia petrolifera ha ribattuto per l’ennesima volta alle accuse dell’UDAPT affermando che le sentenze erano state ottenute con la frode e la corruzione e chiedendo l’annullamento del processo.
Nella stessa udienza, mentre i tamburi e gli slogan degli indigeni e di altri manifestanti da tutto il mondo risuonavano nel presidio organizzato nel parco antistante il palazzo della Corte, l’avvocato dell’UDAPT Pablo Fajardo, dopo aver chiesto il riconoscimento del diritto alla salute e alla vita degli indigeni ecuadoriani dell’Amazzonia come diritti umani sanciti dalla costituzione ecuadoriana, ha ceduto la parola a un capo indigeno e a una rappresentante delle centinaia di vittime delle contaminazioni, i quali hanno ricordato al presidente e ai membri della giuria gli effetti devastanti del disastro e chiesto nuovamente giustizia.
Intervistato dalla stampa internazionale, Fajardo ha dichiarato che un’azienda come la Chevron non avrebbe in realtà nessun problema a pagare una cifra che si aggira sul 10% del suo fatturato annuo. Il vero motivo per cui ha insistito per anni a presentare ricorsi rischiando di rendere più pesante la sanzione comminata, è il fatto che una sentenza come questa (il risarcimento è il doppio di quello imposto alla Exxon Mobil a causa della fuoriuscita di petrolio provocata nel 1989 dalla nave Exxon Valdez in Alaska, n.d.r.) rappresenta una “minaccia al sistema di impunità corporativa delle multinazionali del petrolio nei paesi del terzo mondo”.
Dopo questo fondamentale successo che corona 25 anni di lotta duranti i quali le popolazioni amazzoniche hanno praticato un incredibile percorso di resistenza, l’UDAPT è pronta ad avanzare una proposta per la costruzione di una rete globale che unisca tutte le associazioni delle vittime dei disastri ambientali.
Ezio Maisto