L’incontro di Singapore fra Trump e Kim del 12 giugno è stato un evento tipico della “politica spettacolo”, ma a distanza di un mese che cosa rimane? Forse l’illusione nella maggior parte dell’opinione pubblica che la crisi coreana sia risolta e l’arsenale nucleare e missilistico di Pyongyang non sia più un problema: perché all’opinione pubblica arriva il messaggio immediato, e nessuno la informa sugli sviluppi successivi, che costituiscono il vero problema. Del resto furono i soliti tweet di Tramp post-summit ad affermare che la Corea del Nord “non è più una minaccia”, vantandosi con i reporter di avere “risolto” il problema.
Due articoli, diversi ma nella sostanza convergenti, raccontano un’altra storia, sul Bulletin of the Atomic Scientists (D. Stover, North Korea is not denuclearizing. Yet., 3 luglio) e su Foreign Politics (D. Russel, The Singapore Honeymoon Is Over, 9 luglio). Titoli in italiano: La Corea del Nord non sta denuclerizzando, ancora!; La luna di miele di Singapore è finita.
Il Bulletin informa che il 27 giugno il Wall Street Journal, e due giorni dopo NBC News davano notizia di osservazioni satellitari del potenziamento del principale impianto nucleare di Yongbyon e del potenziamento della produzione di combustibile nucleare in siti segreti nei mesi passati, nonché di espansione della produzione missilistica. Il Bulletin osserva giustamente che in ogni caso queste notizie (piuttosto vaghe) non configurano necessariamente violazioni del Joint Statement firmato a Singapore, che non conteneva impegni vaghi, senza imporre tempi né meccanismi di verifica. L’articolo del Wall Street Journal si basava su immagini postate dal sito 38 North, il quale precisava che i lavori a Yongbyon “non dovrebbero essere considerati in relazione con l’impegno della Corea del Nord a denuclearizzare”.
Molto più critico l’articolo di Foreign Politics. Dopo il facile show di Trump la palla della trattativa è passata ai falchi che egli ha posto in cima alla sua amministrazione, e qui le cose si complicano. Secondo l’articolo Kim – che si è rivelato un negoziatore abilissimo (cosa commentata più volte in passato su Pressenza) – si è abituato ad ottenere le cose direttamente da Trump, e quest’ultimo con i continui spostamenti sempre più a destra nella sua amministrazione si è sguarnito degli uomini che sarebbero stati più idonei. Il Segretario di Stato Mike Pompeo si è recato a Pyongyang più volte. La prima volta ha trattato il rilascio dei tre ostaggi americani, ma non ha ottenuto due cose che Trump aveva imprudentemente già dato per fatte da Kim: il ritorno dei rimanenti 200 statunitensi in servizio dell’era della Guerra di Corea, e lo smantellamento di uno dei siti di test missilistici. Il secondo viaggio di Pompeo è stato anticipato dall’intenzionalmente inutile scadenza posta dal consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton per una veloce denuclearizzazione. Sebbene i negoziatori nei preparativi del summit di Singapore avessero spinto per impegni precisi, questi non sono inclusi nello scarno comunicato ufficiale, che non cita nemmeno la proliferazione, i programmi missilistici, la cyber security, o le armi chimiche. Tre settimane dopo il summit di Singapore Pompeo ha ottenuto solo un dialogo di lavoro sulle “modalità”, il che non promette progressi rapidi sulle cose realmente importanti, come il materiale fissile e lo smantellamento degli impianti di produzione.
Anche lo strumento di pressione delle sanzioni appare indebolito: con i cambiamenti di strategia e di decisioni di Trump la Corea del Nord ha rotto l’isolamento in cui si trovava, ha riallacciato le relazioni e gli scambi con la Cina (che non sarà propensa ad elargire favori dopo l’avvio della guerra commerciale), ed anche con la Corea del Sud e la Russia.