Lo scorso 16 maggio il Consiglio europeo ha adottato, nell’ambito del 2030 Climate and Energy frame work, un nuovo regolamento che istituisce un quadro per l’inclusione delle emissioni e degli assorbimenti di gas serra risultanti dall’uso del suolo e dalla silvicoltura. Un impegno che per il Consiglio “contribuirà a ridurre le emissioni di gas a effetto serra nell’Unione europea nel periodo 2021-2030 grazie a una migliore tutela e gestione di terreni e delle foreste in tutta l’Unione” e che forse consentirà all’Europa di avvicinarsi all’obiettivo dell’accordo di Parigi di ridurre le emissioni almeno del 40% entro il 2030. Per il presidente di turno del Consiglio europeo, Neno Dimov, ministro dell’ambiente e delle risorse idriche della Bulgaria, queste nuove norme “che forniranno agli Stati membri gli incentivi per un uso del suolo rispettoso del clima, senza creare nuove restrizioni o difficoltà burocratiche” sono “una tappa importante che riconosce il ruolo chiave che risorse verdi, foreste, terre coltivate, pascoli e zone umide possono svolgere nel raggiungimento dei nostri obiettivi di politica ambientale a lungo termine”.
Siamo veramente sulla buona strada per l’attuazione degli impegni assunti nell’accordo di Parigi? Se è vero che le foreste dell’Unione assorbono ogni anno l’equivalente di quasi il 10% di tutte le emissioni di gas a effetto serra generato dalla sola Europa e ci forniscono quindi un “servizo ecosistemico” in grado di rimuovere grandi quantità di inquinanti atmosferici e di polveri sottili migliorando sensibilmente la qualità dell’aria e la salute dei cittadini, sarebbe altrettanto urgente riuscire a garantire un sistema di aree protette planetario anche per permettere il naturale svolgimento di diversi processi ecologici che preservano la nostra biodiversità. Secondo lo studio “Uniqueness of Protected Areas for Conservation Strategies in the European Union” pubblicato su Scientific Reports lo scorso aprile da un team di ricercatori, tedeschi, britannici e italiani coordinati da Antonello Provenzale del Cnr e Alessandro Chiarucci dell’Università di Bologna, “L’area del Mediterraneo e le Isole Canarie, ma anche l’arco alpino e l’Europa Centrale sono le regioni dell’Unione Europea che ospitano le aree protette più preziose per la conservazione della biodiversità”.
Lo studio ha esaminato per la prima volta il valore ecologico di 432 aree protette e parchi nazionali europei per la protezione delle specie animali e vegetali a rischio e ne ha calcolato il valore conservazionistico, in termini di unicità. Nonostante i numerosi sforzi compiuti negli ultimi decenni, infatti, ancora molto lavoro rimane da fare per capire quale sia la reale dimensione della biodiversità e la sua distribuzione geografica e, soprattutto, la reale possibilità di preservarla sul lungo periodo. Per capire come fare, il gruppo di ricerca ha messo a punto una serie di metodologie pensate per misurare quanto ogni area contribuisce alla conservazione, sia delle singole specie analizzate, che dei raggruppamenti tassonomici (uccelli, pesci, mammiferi, ecc.). Sono stati così analizzati i dati di 1.303 specie: 469 specie di uccelli, 105 di pesci, 93 di mammiferi, 49 di anfibi, 73 di rettili, 111 di artropodi, 20 di molluschi, 32 di piante non vascolari e 350 di piante vascolari, osservando che “Per poter lasciare alle generazioni future una parte intatta (o quasi) del patrimonio naturale del pianeta, sarebbe fondamentale riuscire a pianificare un sistema di aree protette ancora più esteso” e “adottare politiche conservazionistiche capaci di attuare il proposito”.
Per Chiarucci, “Le trasformazioni del territorio causate dalle attività umane stanno mettendo profondamente a rischio la biodiversità del pianeta, tanto che alcuni studi suggeriscono che una proporzione significativa delle specie attualmente esistenti, forse perfino la metà, scomparirà entro questo secolo”. La riduzione dello spazio a disposizione per i processi ecologici naturali è, infatti, una delle principali cause di perdita di biodiversità. Per questo “Riuscire a dare un valore alle singole aree per la conservazione della biodiversità rappresenta un passo fondamentale per implementare le possibilità di conservazione della biodiversità sul lungo termine”. In questo senso per Chiarucci “Questa ricerca ha permesso di sviluppare, oltre ad un’analisi dello stato di fatto, anche una metodologia statistica che potrà essere ripetuta quando nuovi e più accurati dati saranno eventualmente disponibili”. Certo serve l’interesse a farlo. Un interesse per nulla scontato visto la poca attenzione della politica e quindi la scarsa disponibilità scientifica di dati di qualità sulla presenza (o l’assenza) delle specie dentro le singole aree protette.
Una mancanza, l’assenza di dati, che riguarda anche l’Italia e le sue 35 aree analizzate nello studio, tra parchi nazionali e siti Mab (le Riserve della biosfera individuate all’interno del programma Man and the Biosphere dell’Unesco). “Il nostro Paese, infatti, pur essendo ricco di biodiversità, necessita ancora di molti studi, sia per conoscere la situazione distributiva reale di molte specie, che per individuare i loro trend temporali”. Sarebbe un peccato per il neo Governo e il suo preparato Ministro dell’ambiente Sergio Costa, perdere l’occasione di approfondire le ricerche e mettere in atto politiche conservative rigorose, visto che “Per molti indici considerati dallo studio emerge il notevole valore a livello europeo di alcune aree italiane, come il Parco del Golfo di Orosei e del Gennargentu, o i siti Mab della Selva Pisana e delle Alpi Ledrensi e Judicaria“. Un tema, purtroppo, ben lontano dalle preoccupazioni delle passate legislature.
Alessandro Graziadei