C’è qualcosa di distorto nella lettura comune di alcuni fenomeni, come ad esempio quello dell’arrivo di migranti. Gli elementi più evidenti del loro arrivo nella nostra fragile Europa sono troppo spesso connessi a quello che ci sottraggono: risorse, spazi, lavoro, ordine pubblico, opportunità, serenità, omogeneità. Poco si fa caso a quanto invece portano, arricchendo di prospettive e occasioni i nostri orizzonti. Questa è la storia di uno di questi regali, perché dare voce alle belle esperienze fa bene, a tutti.
Lui si chiama Pierre Rabhi, nato in Algeria 80 anni fa, arrivato in Francia negli anni ’50, vissuto prima a Parigi e poi trasferitosi nella regione di Ardèche, una delle più povere del paese. Tra i terreni calcarei e aridi, luoghi aspri e inospitali in cui però Pierre si stabilisce con la compagna, comincia, con l’allevamento delle capre, l’avventura che lo ha portato a diventare una figura cardine per la biodinamica.
Intorno a lui, a cominciare dalla fine degli anni ’60, si raccoglie una comunità di giovani che sceglie di allontanarsi da un modello di sviluppo che sente sempre meno vicino a un’idea sostenibile di crescita.
E Pierre diventa un punto di riferimento con la sua esperienza di contadino, a cui non è più sufficiente la sola pratica di un’agricoltura biologica. In ambienti particolarmente inospitali, se la terra non è fertile ed è prosciugata dalla siccità, per ripristinare un equilibrio tra gli elementi naturali occorrono azioni più profonde e radicali: gestire con parsimonia l’acqua, piantare alberi, riparare danni ambientali che hanno bisogno di tempi lunghi. Non è solo una questione di come coltivare suoli ostili, ma è soprattutto un modo di leggere l’ambiente e – in senso più ampio – la nostra stessa presenza: si capovolgono le dinamiche del modello capitalista, si valorizza la biodiversità di un territorio, si avviano e si mantengono buone pratiche che nel lungo periodo portano frutti anche dai suoli più aridi. E’ così che Pierre fonda l’agroecologia: nessuna messa in discussione delle regole del biologico, ma nessun certificato da esibire.
Pratiche piuttosto, la cui definizione “certificata” ha poca importanza se comparata alle ricadute che apportano sui territori in cui vengono messe in atto,con l’intento di produrre cibo sano, preservare le risorse naturali e potenziare sistemi di agricoltura sostenibile.
Sono tecniche e soprattutto prospettive di rispetto che si allenano e si imparano, e che Pierre ha condiviso non solo presso il Centre d’étude et de formation rurales appliquées (Cefra), ma anche portandole in Burkina Faso, Camerun, Mali, Niger, Senegal, Tunisia. Grazie alla sua pluriennale esperienza e al suo incessante e ostinato impegno per un’agricoltura che sia realmente a misura di territori e persone, Pierre è riconosciuto a livello internazionale come esperto di sicurezza alimentare e lotta alla desertificazione, ed è diventato protagonista di programmi delle Nazioni Unite di protezione della biosfera. Con un valore aggiunto, che è un obiettivo autenticamente politico: ridurre la fame delle fasce più povere della popolazione. Ha scritto libri ed è il fondatore dell’associazione Terre & Humanisme, che si pone lo scopo di diffondere un’interpretazione spirituale di azioni complesse e preziose come quella di coltivare la terra: energia per la vita, che pone limiti alla razionalità a volte, ma non alla capacità di leggere la realtà. Spesso chi coltiva la terra non ha il cibo per sfamarsi, perché lavora su terreni che non possiede, convertititi a monoculture destinate ad altri, uomini o animali di allevamenti intensivi. L’agroecologia, allora, è anche questo: un modo per restituire dignità a chi lavora la terra, la rispetta, la protegge.
E pensare che, all’inizio, Pierre era “solo un altro dei soliti immigrati”.
Anna Molinari