Considerate il numero di dosi giornaliere standard di oppioidi consumate in Giappone. Poi raddoppiatelo. Raddoppiatelo ancora. Raddoppiatelo un’altra volta. E poi un’altra. Raddoppiatelo per una quinta volta. Anche così, il Giappone sarebbe solo il numero due al mondo, dietro agli Stati Uniti”. A parlare dell’emergenza nel consumo di oppioidi negli USA è Keith Humphreys, politologo di Stanford esperto di politiche pubbliche relative alle sostanze stupefacenti che non può non considerare i numeri di statunitensi morti per overdose tra il 2000 e il 2016, superiori a quelli dei deceduti nella prima e nella seconda guerra mondiale messi insieme.Ma a ribadire i toni allarmistici di quella che è stata chiamata “Oppidemia” (epidemia di oppiacei) è stato lo stesso presidente Trump che il 26 ottobre dello scorso anno ha parlato di “emergenza sanitaria”, pur senza spingersi a dichiararla “un’emergenza nazionale”,atto che avrebbe automaticamente fatto stanziare risorse per combattere l’epidemia. Si procede quindi con quello che si ha: ad esempio i vigili del fuoco di Salt Lake City hanno deciso di fornire il naloxone, un farmaco che blocca gli effetti degli oppioidi, a chiunque dia segno di assuefazione, così da cercare di ridurre i casi di overdose. L’identikit del drogato è, però, ben differente da quello che generalmente si immagina: bianco, sotto i 35 anni della classe media, un elemento che fa pensare a questa crisi come una ulteriore conseguenza del declino della classe lavoratrice bianca.
Non si parla di oppiacei, ossia di oppio e dei suoi derivati naturali o semi-sintetici come eroina, morfina o altri analgesici simili. O almeno non solo di queste sostanze. Con oppioidi ci si riferisce agli oppiacei e anche ad altri composti sintetici non ricavati dall’oppio,ma che analogamente agiscono sui recettori che regolano la percezione del dolore, per intenderci potenti analgesici come il fentanyl, l’ossicodone o il vicodin. In quella che si sta configurando come la peggiore crisi sanitaria nella storia degli Stati Uniti, le migliaia di morti per overdose sono vittime non tanto di droghe importate dall’estero e illegali, come l’eroina prodotta in Messico o la cocaina colombiana, ma di farmaci del tutto legali, prescritti dai medici statunitensi e venduti dalla grande distribuzione farmaceutica. È lo stesso concetto “culturale” di droga il vero problema: negli Stati Uniti l’eroina è illegale e ispira una generale avversione collettiva, eppure è possibile acquistare in farmacia dietro prescrizione medica, ma senza grandi restrizioni, sostanze oppioidi molto potenti con effetti del tutto simili all’eroina. Ilpassaggio dai benefici terapeutici di questi farmaci all’assuefazione e al rischio di dipendenza è purtroppo alto, come i dati riportati dal National Center for Health Statistics, un dipartimento del Centers for Disease Control and Prevention, riportano: le morti per overdose negli Stati Uniti nel 2016 ammontano a circa 64mila persone (ben superiori a episodi di violenza armata o incidenti automobilistici), di queste l’83,4% è stato causato da oppioidi. Numeri che hanno indotto il noto settimanale americano TIMEa dedicare un intero numero speciale alla nostra crisi nazionale, quella che è stata definita la “peggiore epidemia di tossicodipendenza nella storia americana”.
Oltre a raccontare più di 200 storie dei protagonisti di questa emergenza, ossia chi fa uso di sostanze, le loro famiglie e i soccorritori che intervengono in caso di overdose, il TIME, come il Guardian, ha attribuito grandi responsabilità alle case farmaceuticheche “hanno promosso aggressivamente gli oppioidicome una soluzione a basso rischio per i dolori cronici di lungo periodo”, incentivando i medici nelle prescrizioni tanto che “agli americani sono prescritti più oppioidi di qualsiasi altra persona al mondo”, con un rapporto di un contenitore di pillole per ogni adulto americano. L’azione di lobbying sul Congresso a partire dalla metà degli anni Novanta è stata pressante e continua, volta a limitare i programmi e gli interventi di prevenzione contro le dipendenze. Proprio la volontà politica ed economica che ha condotto all’incontrollata diffusione di farmaci e antidolorifici è stata messa sotto accusa in tribunale: a gennaio la città di New York ha fatto causa ad alcune note case farmaceutiche(Purdue Pharma, Endo, Janssen, Johnson & Johnson, Watson, Teva e Allergan) dinanzi alla Corte suprema dello Stato, chiedendo danni per 500 milioni di dollari. Non si tratta di un caso isolato. Lo scorso autunno l’Ohio e il Mississippi avevano citato per danni le case farmaceutiche e la città di Chicago ben nel 2014, seguita da Philadelphia: sindaci e governatori imputano alla commercializzazione ingannevole di potenti analgesici e alla loro invasione del mercato gli alti costi sostenuti per far fronte a programmi di disintossicazione, servizi ospedalieri, emergenziali e delle forze dell’ordine. Una schiera di interventi e di personale di cui però ancora non si vede il risultato tangibile sulla crisi in corso.
Articolo di Miriam Rossi