Il dibattito sulla flat tax in Italia è davvero surreale. Anzitutto, va detto che la flat tax c’è già stata. Per trovarla è necessario andare indietro di 170 anni: la tassazione proporzionale era stata inserita nell’art. 25 dello Statuto Albertino approvato il 4 marzo 1848: «Essi (cioè i contribuenti) contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato».
Quasi 100 anni più tardi, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente elaborò il testo dell’art. 53 della Costituzione Repubblicana: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Il passaggio dall’imposizione proporzionale a quella progressiva venne argomentato in sede Costituente da Salvatore Scoca, che dell’art. 53 fu relatore: «Credo necessario che si inserisca nella nostra Costituzione, in luogo del principio enunciato dall’articolo 25 del vecchio Statuto, un principio informato a un criterio più democratico, più aderente alla coscienza della solidarietà sociale e più conforme alla evoluzione delle legislazioni più progredite. La regola della progressività deve essere effettivamente operante. Ciò significa che la progressione applicata ai tributi sul reddito globale o sul patrimonio dev’esser tale da correggere le iniquità derivanti dagli altri tributi, ed in particolare da quelli sui consumi».
Il primo a riproporre la restaurazione della flat tax è stato Silvio Berlusconi: nella campagna elettorale del 1994 Forza Italia ipotizzò un’aliquota unica al 33%. Nel 2005 i Radicali di Marco Pannella e nel 2008 la Destra – Fiamma Tricolore guidata da Daniela Santanché, indicarono l’aliquota del 20%. Nel 2012 il Popolo della Libertà presentò uno studio per una flat tax al 23%. Nel 2014 la Lega Nord di Matteo Salvini ripropose l’aliquota al 20%, per abbassarla successivamente al 15%. Oltre a queste forze politiche la proposta di una flat tax è arrivata anche dalla Fondazione Magna Carta (con aliquota al 20%) e dall’Istituto Bruno Leoni (aliquota unica al 25%).
Dando uno sguardo alla situazione europea, possiamo verificare che la tassazione proporzionale sui redditi è in vigore in: Bulgaria (10%), Lituania, Repubblica Ceca e Ungheria (15%), Romania (16%), Estonia (20%) e Lettonia (23%). La Slovenia ha introdotto la flat tax (aliquota al 19%) nel 2004, ma l’ha abbandonata nel 2013. È evidente che l’imposizione proporzionale in Europa esiste soltanto in alcuni Paese dell’Est e in nessuno dei Paesi più sviluppati economicamente.
Il motivo è spiegato chiaramente in un Bollettino periodico del 2007 della Banca Centrale Europea: «Sistemi con flat taxes pongono problemi di equità in quanto influiscono sulla distribuzione dei redditi personali».
Nel contratto per il governo del cambiamento, elaborato da Lega e M5S, si legge: «Il concetto chiave è flat tax, ovvero una riforma fiscale caratterizzata dall’introduzione di aliquote fisse, con un sistema di deduzioni per garantire la progressività dell’imposta, in armonia con i principi costituzionali. In particolare, il nuovo regime fiscale si caratterizza come segue: due aliquote fisse al 15% e al 20%».
Dato che la flat tax si caratterizza per il fatto di essere un’aliquota unica, se le aliquote sono due, perché viene chiamata flat tax?
Inoltre, nel contratto si dice che con questa proposta fiscale ci sarà «una maggiore equità fiscale, dunque, a favore di tutti i contribuenti». Ma se le aliquote da 5 vengono ridotte a 2, come si può annunciare una maggiore equità fiscale?
È appena il caso di ricordare che quando è stata introdotta l’imposta sui redditi, all’inizio degli anni ’70, le aliquote erano 32.
In conclusione, ognuno è libero di fare le proposte che preferisce anche in materia fiscale, ma non è obbligatorio prendere in giro la gente. Per evidenti ragioni matematiche la flat tax favorisce i redditi più alti. Sarebbe meglio, per onestà, ammetterlo.