L’Armenia ha un nuovo primo ministro, dopo che le grandi proteste delle ultime settimane avevano portato alle clamorose dimissioni dell’ex presidente Serzh Sargsyan.
Dopo un primo turno di votazioni conclusosi con un nulla di fatto, al secondo tentativo l’Assemblea Nazionale armena è riuscita a mettersi d’accordo sul nome del successore di Sargsyan, premiando quello che era da tempo l’unico candidato in corsa, (nella foto), deputato dell’opposizione e leader della cosiddetta “Rivoluzione di velluto”, eletto con 59 voti a favore e 42 contro.
Buona la seconda
In vista del primo turno di votazioni Pashinyan era riuscito a ottenere l’appoggio dell’intera opposizione, che in parlamento conta 47 seggi, ma gli mancavano ancora 6 voti per avere la maggioranza necessaria a ricevere la nomina, il che rendeva necessario l’appoggio di almeno una parte del Partito Repubblicano, il quale per evitare scontri aveva deciso di non presentare candidati. Alla fine, nonostante un’iniziale apertura che aveva fatto sperare il leader di Yelk, tale appoggio è però venuto meno, con i repubblicani che dichiararono di “non vedere Pashinyan come primo ministro dell’Armenia”.
Al secondo giro l’opposizione ha confermato compatta il proprio sostegno a Pashinyan, passando la palla ancora una volta alla maggioranza, la quale incalzata ha garantito che avrebbe dato “i voti necessari per non far fallire l’elezione”, facendo comunque capire che l’approvazione non sarebbe stata unanime – “rimaniamo attaccati ai nostri principi” ha sostenuto il portavoce dei repubblicani Sharmazanov.
Alla fine, una parte dei deputati repubblicani ha effettivamente deciso di sostenere la candidatura di Pashinyan, contribuendo in maniera decisiva alla sua nomina a capo del governo (se anche quest’ultimo tentativo fosse andato a vuoto il parlamento si sarebbe dovuto sciogliere e si sarebbero indette subito nuove elezioni).
La vittoria della piazza
La nomina di Pashinyan rappresenta la vittoria della piazza, di tutte quelle decine di migliaia di armeni che nelle ultime settimane hanno riempito le strade di Yerevan per protestare contro l’ultima trovata di Sargsyan, che con un abile scambio di poltrone, dopo dieci anni alla presidenza del paese, aveva provato a reinventarsi primo ministro; carica sulla quale aveva fatto in modo di accentrare tutto il potere esecutivo.
Emerso fin dall’inizio come leader delle proteste, Pashinyan si è fatto rappresentante della rabbia e della stanchezza di un popolo, quello armeno, che ormai da tempo manifestava un crescente malessere: ne sono un esempio eventi come Electric Yerevan, protesta scoppiata nel 2015 in seguito all’ennesima decisione del governo di aumentare la bolletta dell’elettricità, o ancora la crisi degli ostaggi dell’anno successivo, che sfociò in una serie di manifestazioni anti-governative che per giorni paralizzarono la capitale armena. In entrambi i casi, le proteste vennero represse con la violenza dalle forza dell’ordine.
Questa “rivoluzione di velluto”, come Pashinyan stesso l’ha definita, non è stata altro che l’ultimo disperato tentativo da parte del popolo armeno di porre fine a un sistema ormai irrimediabilmente corrotto, caratterizzato dalla concentrazione del potere nelle mani di pochi oligarchi e da una povertà fin troppo diffusa, al punto da generare negli ultimi anni una vera e propria emergenza sociale.
Una vita all’opposizione
Ex giornalista ed editore del quotidiano Haykakan Zhamanak, Pashinyan non ha mai lesinato critiche nei confronti del Partito Repubblicano e della leadership armena. Tenace oppositore prima di Robert Kocharyan (presidente dal 1998 al 2008) e successivamente di Sargsyan, quando quest’ultimo si candidò alle presidenziali del 2008 si schierò al fianco dell’ex presidente Levon Ter-Petrosyan, inscrivendosi al Congresso Nazionale Armeno.
Tali posizioni sono spesso costate caro al leader di Yelk, che nel 2000 venne condannato per diffamazione a causa di alcuni contenuti scomodi pubblicati sul quotidiano che all’epoca dirigeva. Dopo le violente proteste post-elettorali del 2008, scoppiate in seguito alle elezioni presidenziali vinte da Sargsyan, venne addirittura ricercato dalla polizia con le accuse di omicidio e incitazione al disordine di massa. Arrestato e incarcerato nel 2009, venne rilasciato nel 2011 grazie a un’amnistia.
Nel 2012 Pashinyan entrò per la prima volta in parlamento, mentre nel 2013 fondò il partito Contratto Civile, il quale tre anni più tardi confluì nell’alleanza Yelk, fondata insieme a Edmon Marukyan e Aram Sargsyan.
Governo provvisorio
Il leader di Yelk avrà ora due settimane di tempo per formare la nuova squadra di governo, che dovrà poi ottenere la fiducia del parlamento, al quale il nuovo primo ministro presenterà appena possibile il proprio piano d’azione. Il nuovo governo sarà guidato dall’attuale opposizione, con l’esclusione quindi del Partito Repubblicano, al potere ininterrottamente dal 1995; quello di Pashinyan sarà comunque un governo provvisorio, in attesa di una decisione definitiva riguardo allo svolgimento delle più volte annunciate elezioni anticipate (le ultime risalgono all’aprile 2017), per le quali si dovrà aspettare verosimilmente tra i 3 e i 6 mesi.
Tra le principali priorità del nuovo capo del governo vi saranno l’eradicazione della corruzione e la lotta alla povertà, due delle più grandi piaghe che affliggono la società armena, con l’obiettivo di “stabilire un’unità nazionale basata sulla legge e sul diritto”. Il nuovo esecutivo proverà inoltre a riformare il sistema elettorale e a revisionare gli ultimi emendamenti costituzionali, fortemente voluti da Sargsyan e approvati nel 2015.
Da affrontare sarà anche il problema dell’alto tasso di emigrazione, così come la difficile situazione internazionale del paese, con la prima visita di stato ufficiale tenutasi nel Nagorno-Karabakh.