In Sri Lanka il lento processo di riconciliazione tra la minoranza tamil e la maggioranza cingalese continua ad essere un tema delicato anche dopo la firma degli accordi di pace che il 16 maggio 2009 hanno messo la parola fine ad una guerra che aveva insanguinato l’isola dal 1983, causando circa 100.000 morti tra civili e militari. Un processo gestito della maggioranza cingalese attraverso una pericolosa “impunità dei vincitori”, che fino ad oggi non ha certo aiutato la pacifica convivenza tra i due gruppi etnici e ha dovuto fare i conti con la ciclica ri-esplosione di un conflitto che sta rendendo più lungo e difficile il processo di pace. L’ultima trovata “mediatica” è stata l’apertura, sponsorizzata dal Governo di Colombo, del primo canale televisivo in lingua tamil su Sri Lanka Rupavahini Corporation (Slrc), la televisione di Stato con l’obiettivo di “sostenere l’unità nazionale e la riconciliazione tra la popolazione”.
“Reconciliation Channel” è in onda dallo scorso 20 febbraio, gode del patronato del presidente dello Sri Lanka Maithripala Sirisena e diffonde in lingua tamil programmi di approfondimento sull’identità nazionale, religiosa e culturale della popolazione tamil. Secondo molti spettatori, però, le trasmissioni avrebbero dovuto essere sia in lingua singalese che tamil. In questo modo invece, coloro che non parlano la lingua tamil non riescono a comprenderne il valore della comune cultura e l’operazione sembra erigere un muro linguistico tra le etnie anziché costruire un ponte culturale tra le stesse.
Per Sundaram Velayudhan, un commerciante 59enne della capitale Colombo siamo davanti a uno sforzo senza senso: “Perché il canale della riconciliazione deve essere solo in una lingua?”. Sundaram nel 1983, durante i violenti scontri provocati dai buddisti cingalesi, ha visto dare alle fiamme tutte le sue proprietà, solo perché lui è di religione indù. Per questo, “se il governo vuole creare una società pacifica e giusta per tutta la nazione, dobbiamo conoscere gli uni il valore degli altri, le identità nazionali, religiose, culturali e linguistiche, altrimenti non faremo mai progressi sulla strada della pace” ha spiegato.
Un parere comune anche a Mano Ganesan, ministro della “Coesistenza nazionale, del dialogo e delle lingue ufficiali”, che ha detto di apprezzare il nuovo canale, “ma esso deve essere rivolto non solo al nord. Gli abitanti del sud devono conoscere i problemi del nord e viceversa. Solo così vedremo l’avvio di un vero percorso di riconciliazione”. Per Anusha Sivalingam, una giovane attivista tamil che lavora come traduttrice, il canale è un passo positivo, ma non basta: “Per ora la parola riconciliazione sembra inadatta, perché quella giusta dovrebbe essere giustizia. Il governo deve insegnare l’umanità, perché non possiamo sperare nella riconciliazione senza conoscere il rispetto dell’umanità [altrui]. Altrimenti è inutile”.
Accanto alle perplessità, in molti hanno espresso anche soddisfazione, come Anandi di Jaffna, insegnante oggi in pensione, che per anni ha lavorato alla Muslim Maha Viddyala a Matugama, nel distretto di Kalutara, a sud di Colombo e per la quale “Questo canale è uno sforzo positivo perché i tamil di oggi hanno dimenticato la loro cultura […] e un’identità chiara e riconosciuta diminuisce il rischio di discriminazioni”.
La TV in ogni caso non basta. Per accelerare il processo di riconciliazione e pacificazione nazionale occorre un maggiore impegno da parte dei leader delle quattro grandi religioni dello Sri Lanka, come avevano ricordato lo scorso anno gli attivisti della ong Law and Society Trust di Colombo partendo dai risultati ottenuti dagli esperti di diritto che hanno redatto il rapporto finale della Consultation Task Force on Reconciliation Mechanism. Gli esperti della Task Force che per anni hanno raccolto pareri e testimonianze delle vittime della guerra civile che ha diviso le comunità singalese e tamil, avevano suggerito di “creare un tribunale misto” e invitato i leader delle grandi religioni a “sostenere la ricerca della verità, insegnando non la vendetta, ma la comprensione reciproca”.
Per Priyantha Deepal e Anushka Kahandagamage, due membri dell’organizzazione che hanno partecipato alle consultazioni della commissione presidenziale che ha redatto il rapporto, recandosi nei villaggi e nelle aree sequestrate dall’esercito, “Ciò che stupisce è che nei parenti delle vittime non aleggia un sentimento di vendetta. Una madre tamil ci ha detto che è disposta a perdonare i carnefici di suo figlio a patto che il Governo prenda posizione una volta per tutte, evitando che simili tragedie accadano ancora”. Il Governo dovrebbe, quindi, assumersi le sue responsabilità, raccontare che fine hanno fatto centinaia di tamil e restituire molte delle terre che sono state sequestrate a questa comunità prima e dopo l’avvia del processo di pace. Per Sandun Tudugala, della Law and Society Trust, “è compito di noi attivisti esprimere legittime obiezioni se il Governo non mantiene le promesse”, ma “è tempo che il Governo soddisfi senza trovare alibi le richieste delle vittime”.
Intanto è dalla società civile che arriva il buon esempio. Lo scorso luglio un alto magistrato tamil indù M. Illancheliyan si è fatto carico di due bambini buddisti singalesi dopo l’uccisione del loro papà, che era stato la sua guardia del corpo per 17 anni: “Da oggi ho quattro figli – ha dichiarato Illancheliyan -. Mi impegno ad assumermi tutte le responsabilità di questi altri due figli fino alla mia morte”, ha detto Illancheliyan al funerale di Sarath Hemachandra, morto per difendere proprio il magistrato da un attentato. Un gesto che entrambe le comunità hanno considerato un vero esempio di pace e riconciliazione per lo Sri Lanka, sicuramente più significativo di qualsiasi trasmissione televisiva.
Alessandro Graziadei