Allo stato degli atti manca la prova anche della sussistenza di place of safety in territorio libico in gradi di accogliere i migranti soccorsi nelle acque Sar di competenza, nel rispetto dei loro diritti fondamentali. In mancanza di tale prova, e quindi della evitabilità del pericolo di un grave danno alla persona, danno che non può ritenersi puramente ipotetico e non attuale, la scriminante dello stato di necessità rimane in piede”. Lo scrive nero su bianco il gip di Ragusa Giampaolo Giampiccolo nel decreto con cui dispone il dissequestro della nave dell’ong spagnola Open Arms, ferma dal 18 marzo scorso al porto di Pozzallo. Poche righe che legittimano l’azione di “disobbedienza” dei soccorritori spagnoli in base <all’articolo 54 del nostro codice penale (stato di necessità) e in base all’assunto fondamentale di aver agito per evitare che le persone fossero di nuovo esposte al rischio di tortura e a trattamenti inumani e degradanti. Un punto fondamentale che rimette in discussione molte delle accuse mosse in questi mesi alle ong che operano nel soccorso in mare. E che potrebbe costituire un precedente importante anche sul dibattito della legittimità del Codice di condotta imposto dal Ministero dell’Interno italiano.
L’articolo 54 e lo stato di necessità. In particolare, “l’analisi giuridica è compiuta in maniera molto rigorosa – sottolinea Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) -. Il giudice riconosce che la Open Arms ha operato i soccorsi in autonomia e che l’ong ha disobbedito agli ordini impartiti, ma l’azione viene esaminata alla luce dell’applicazione dell’articolo 54 codice penale, cioè sullo stato di necessità – spiega -. Secondo il giudice, infatti, lo stato di necessità non è legato all’immediatezza del soccorso, perché dalla ricostruzione dei fatti sembra emergere che le condizioni delle barche non fossero a rischio di naufragio. Il problema dunque non è il ritardo nei soccorsi o l’impossibilità di attendere l’arrivo della Guardia costiera libica. La valutazione è fatta, invece, su cosa si debba intendere per pericolo di subire un grave danno alle persone soccorse. E cioè non solo, come è evidente, in relazione al rischio di naufragio, ma in termini preventivi, ovvero a ciò che sarebbe accaduto se le persone fossero state salvate riportandole in Libia. E quindi alle conseguenze che si sarebbero prodotte, se l’organizzazione non avesse disobbedito alle istruzioni ricevute.
Il punto dirimente è che la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, né ha nessun’altra norma che sia neppure lontanamente assimilabile, come effetti, alla convenzione: nessuno può essere protetto in Libia dal rischio di persecuzione o di trattamenti disumani e degradanti perché nessuna legge lo prevede. Questo è il punto focale del ragionamento per cui secondo il giudice non esiste un posto sicuro e quindi l’associazione ha agito pensando di salvare le persone dalla situazione dalla quale loro stessi fuggivano in Libia”.
Un precedente importante questo secondo Schiavone, perché la valutazione sulla Libia non riguarda solo quel salvataggio, ma la situazione che c’è nel paese sia rispetto alle condizioni materiali dei migranti nei centri che a quelle giuridiche. “Tutto dovrebbe cambiare radicalmente: non basta migliorare la vita nei centri, bisogna che la Libia si doti di una normativa che consenta di dare ai migranti uno status giuridico che assicuri loro l’esercizio dei diritti fondamentali, in particolar modo per coloro che hanno un chiaro bisogno di protezione. Se ciò non accade, ed è legittimo pensare che non succederà, questo tema finalmente fa irruzione nel dibattito e porta a chiedersi:se la Open Arms, che è un privato fa una giusta valutazione sulla condizione di pericolo a cui le persone sarebbero state esposte, come possono le istituzioni della Repubblica italiana non farlo e continuare addirittura sul piano formale a collaborare a rinviare le persone in Libia?
Il problema di una zona Sar libica
Nel provvedimento il giudice riconosce una zona Sar (search and rescue) libica. “La convenzione Sar – continua Schiavone – impone però agli stati di assicurare un posto sicuro, con cui non si può intendere solo la salvezza materiale, ma anche il rispetto dei diritti fondamentali. Come si è detto, questo in Libia non c’è, non solo per le condizioni in cui vivono i migranti nei centri di detenzione ma anche per la mancanza di strumenti di protezione legale. Questa dunque è l’unica osservazione critica che farei al provvedimento: trovo difficile sostenere che esista un’area Sar libica e contemporaneamente riconoscere che non esista la possibilità di sbarcare le persone in un posto sicuro (Pos place of safety) – aggiunge Schiavone -. Le due cose sono strettamente collegate in quanto la convenzione Sar siglata ad Amburgo il 1979 impone agli stati l’obbligo di concludere le operazioni di soccorso in un luogo sicuro. Per fare un esempio semplice è come riconoscere l’esistenza di un servizio di ambulanze che porta però le persone in un luogo dove non esiste un pronto soccorso”.
La questione Malta
Nella seconda parte del provvedimento il giudice fa riferimento al fatto che il comandante della nave, nonostante le segnalazioni dell’Mrss, non abbia voluto prendere contatto con Malta che rappresentava il porto più vicino. “Interessante il ragionamento sulla questione, si parla di una situazione di fluidità e incertezza: non c’è una chiara informazione sulla concreta disponibilità di Malta di accogliere migranti. Questo è legato anche al fatto che l’operazione Themis è molto recente e al fatto che Malta nel passato normalmente non ha risposto alle sollecitazioni – afferma Schiavone -. Sostanzialmente si riconosce nei fatti che non si può a chiedere a Open Arms di risolvere l’annoso problema del ruolo di Malta nella gestione dei soccorsi. Non è possibile riversare la confusione internazionale che da anni regna su questo tema sulla condotta di una organizzazione umanitaria”.
Per l’ong spagnola le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina restano in piedi, ma potrebbero cadere sulla scia della stessa valutazione giuridica. Il gip di Ragusa si è espresso sul sequestro della nave, ma di certo “l’analisi giuridica e la valutazione sulla condotta dell’ong atta dal Gip di Ragusa non possono essere ignorate dal giudice che dovrà valutare l’accusa di favoreggiamento – conclude Schiavone.
Più in generale, le conclusioni su ciò che avviene veramente in Libia, sul fatto che non garantisce nessun porto sicuro perché manca radicalmente ogni strumento giuridico di protezione dei migranti fa tornare l’intero dibattito al punto vero che è stato sempre eluso. Prima di tutto viene la salvezza delle persone, tanto dal rischio di morire in mare come da quello di subire persecuzioni e torture.
Eleonora Camilli
Redattoresociale.it