Uccideteli tutti. Solo così potrete sperare di farcela. Questo potrebbe essere il pensiero spontaneo salito alla mente di un osservatore occidentale ieri sera a Khuza’a, Striscia di Gaza.
Khuza’a è una cittadina nel governatorato di Khan Younis su cui si accanì in modo particolarmente crudele l’esercito israeliano 4 anni fa, durante il massacro impropriamente chiamato guerra e altrettanto impropriamente “margine protettivo”, che in 51 giorni fece migliaia di morti e di feriti in questa striscia di terra sotto assedio.
Khuza’a si trova lungo il confine con Israele ed è uno dei punti di concentramento scelti dagli organizzatori della “grande marcia del ritorno”, quella durante la quale, lo scorso venerdì, si sono scatenati cecchini ed esercito israeliano facendo in poche ore 17 martiri e circa 1500 feriti tra i manifestanti inermi che chiedevano il rispetto delle Risoluzzioni Onu.
In tutti i punti di concentramento dal nord al sud della Striscia, nonostante la violenza israeliana, il popolo palestinese si è dato appuntamento per proseguire la grande marcia. A Khuza’a siamo andati a vedere, come già avevamo fatto venerdì scorso ad Al Saphieh, e abbiamo trovato la stessa allegria e la stessa calma determinazione della giornata di sangue che Israele, come al solito impunito, ha aggiunto al lungo elenco che un giorno farà vergognare i suoi cittadini per il passato dei loro padri. E’ già successo a noi italiani, è successo anche ai tedeschi. La storia in fondo spesso si ripete in tempi e luoghi diversi.
Non è facile per gli occidentali dalla pelle molto chiara girare da soli e soprattutto arrivare in punti a rischio di pallottole. Non lo è perché le autorità locali sono estremamente attente ai pochissimi stranieri riusciti a entrare nella Striscia a proprio rischio e pericolo e quel pericolo i governanti di Gaza cercano di ridurlo al minimo. Non bastasse la sicurezza di Hamas ci sono sempre gli amici locali pronti a farti da guardia del corpo e così, solo con mille attenzioni e raccomandazioni, si riesce ad arrivare in uno dei punti caldi. E’ tardo pomeriggio e l’impressione che si ha è quella di stare a una festa di paese. I colpi che si sentono ogni tanto potrebbero essere benissimo fuochi d’artificio, tanta è la tranquillità con cui i gazawi si comportano. Invece sono i teargas lanciati a 700 metri di distanza dai soldati israeliani e a questi si risponde con qualche copertone incendiato per creare una cortina di fumo nero che renda più difficile prendere eventualmente la mira contro uno dei tanti palestinesi che osano chiedere giustizia.
C’è qualche giornalista e qualche fotoreporter che riprende la scena, ma nessun occidentale a parte chi scrive, e forse anche per questo il trattamento umano è ancor più accogliente del solito. Questo facilita le interviste, anzi sono gli stessi manifestanti che vogliono parlare.
Una ragazzina con un inglese perfetto, capelli sciolti e priva di ijab si avvicina, si presenta e racconta di sé, della famiglia, dei morti e del terrore vissuto 4 anni fa ma sorride e dice che ormai non ha più paura. Un gruppetto di altre ragazze si avvicina e lei fa loro da interprete, tutte ripetono che non hanno paura e alcune mostrano delle grandi foto incorniciate. Pensiamo si tratti di martiri e invece sono loro stesse e i loro amici fotografati nella prima giornata di manifestazione. Sono ragazze fiere del loro essere resistenti.
L’atmosfera è incredibile. Parliamo con alcuni giornalisti locali e con alcuni giovani uomini che sembrano far parte dell’organizzazione. Cambiano le parole ma il senso delle risposte non cambia, è un “basta, non vogliamo più sottostare a quest’ingiustizia, vogliamo il rispetto del diritto internazionale e siamo disposti a morire”. Questa volta non usano molto il termine “amal” cioè speranza, le persone intervistate, ma usano molto “kalas” cioè basta così.
Ci si potrebbe aspettare un atteggiamento rabbioso e nevrotico e invece è incredibile quel che vediamo. Hanno montato le tende “di famiglia” e le tende collettive, quelle dove si organizza il primo soccorso e quelle dove si prepara il cibo, poi c’è la tenda della comunicazione dove hanno anche il wifi per trasmettere col mondo. Hanno raccolto migliaia di copertoni di camion che venerdì prossimo bruceranno per evitare che i cecchini possano prendere la mira e uccidere “troppo”. Sanno che comunque uccideranno, perché senza alcun rispetto per il Diritto internazionale Netanyahu e Lieberman anche questa volta hanno avvertito il mondo che ripeteranno i loro crimini sapendo che il mondo li lascerà fare.
Un giovane giornalista di Khuza’a al quale chiediamo la sua opinione ci dice, al pari degli organizzatori, che loro porteranno avanti la grande marcia fino al 15 maggio, cioè il giorno della Naqba, perché è convinto che il mondo non potrà ancora ignorare le ingiustizie subite dalla Palestina. Gli facciamo notare che non sembra esserci una vera strategia e che Israele farà un nuovo e peggiore bagno di sangue. La sua risposta è decisa e disarmante: “abbiamo smesso di aver paura della morte, la nostra vita è senza futuro e senza dignità e noi diciamo basta. Israele ci sparerà di nuovo ma non potrà ammazzarci tutti. Noi affrontiamo la morte perché quelli che resteranno vivi saranno liberi”.
Non usano più la parola speranza, ma usano più che mai i termini “basta, diritti e morte”. Non sono potenziali suicidi pronti a immolarsi, ma uomini e donne che vogliono vivere liberi e alcuni di loro sono convinti che Israele ha paura della loro determinazione e solo se potesse ucciderli tutti avrebbe vinto, ma questo non sarà mai possibile.
Non intendiamo fare un’analisi politica della situazione ma semplicemente esporre i fatti e quindi ci limitiamo a riportare i loro pensieri, ma una cosa è evidente e indiscutibile: c’è grande unità tra di loro. Quella riconciliazione che ai vertici non è ancora avvenuta, sembra essere la forza della base. Qui non sventolano bandiere rosse dei due Fronti o nere della Jihad o gialle di Fatah o verdi di Hamas, qui c’è di tutto ma sotto l’unica bandiera palestinese.
Tutti loro sanno che Israele ucciderà ancora e ancora, ma sono determinati a resistere e in questa notte che sembra di festa, davanti al nemico armato e pronto a uccidere, hanno anche organizzato una danza popolare di massa.
Non è la dabka, la danza popolare che ormai conoscono tutti, ma è la dhiya e questo ha un preciso significato antropologico ma forse Israele non lo sa. La “dhiya” è una danza araba di lunghissima tradizione, una danza tribale che viene fatta per sollevare gli animi, dare coraggio ed entusiasmo collettivo prima di una battaglia. Questo popolo, di fronte a un nemico tanto armato quanto spietato sta ballando a mani nude la dhiya.
E’ notte e l’entusiasmo è altissimo. Questo significa che questo popolo non si arrenderà. Qualcuno dovrebbe dirlo a Israele, dovrebbe dirgli che se non li ammazza tutti non ce la può fare, e prima ancora qualcuno dovrebbe dirlo a quell’Organizzazione delle Nazioni Unite che proprio Israele è riuscito a screditare al punto che ormai sembra più vicina a un ramo secco che non all’Organizzazione garante del Diritto universale.