Mentre in Italia si disquisiva sull’opportunità o meno di accogliere alla festa della Liberazione le bandiere palestinesi in quanto espressione di un popolo sotto occupazione e quindi, ai sensi del punto “m” dell’art.2 dello statuto dell’Anpi, accoglibili a tutti gli effetti nonostante la pretesa di espulsione da parte delle Comunità ebraiche legate alla politica israeliana, da Gaza arrivava la notizia che due delle migliaia di palestinesi feriti dall’esercito israeliano erano morti dopo molti giorni di agonia. Si trattava di un adolescente di nome Tahir Wahba e di un altro giovane di nome Mohammed Shomali.
L’identificazione dei martiri è importante quando ad essi si dà rispetto e per questo li chiamiamo per nome che non vada a perdersi almeno quella pietas umana che impedisce di ridurre le uccisioni a semplice video game e i morti a numeri più o meno significativi.
Risolta la questione bandiere in modo diverso nelle diverse città d’Italia, comunque ieri, 25 aprile, la Liberazione veniva festeggiata. Ma proprio mentre la manifestazione finiva e la diatriba tra filo-israeliani e palestinesi andava momentaneamente a riposo, arrivava la notizia che un altro giovane palestinese, un fotoreporter preso di mira dai cecchini israeliani venerdì scorso mentre fotografava a centinaia di metri dal confine, aveva finito di vivere. Si chiamava Mohammed Abu Hussein e aveva il giubbetto identificativo con la scritta PRESS. Giubbetto che, dato il numero dei giornalisti palestinesi feriti o uccisi, fa supporre che non sia una protezione ma un target per gli snipers posizionati su collinette di sabbia create ad hoc dalle ruspe israeliane per prendere la mira anche a notevole distanza.
Oggi a Jabalia, a nord di Gaza, si terranno i suoi funerali. I suoi amici lo piangono con rabbia e sono convinti che sia stato ucciso perché colpevole di filmare la verità. I suoi familiari lo piangono con dolore, ma hanno la stessa convinzione. I media che fanno la conta dei morti, quando questi appartengono a una categoria non considerata particolarmente importante, non ne parleranno se non con un rigo d’agenzia, ma domani prosegue la “grande marcia” e sappiamo che questa morte non fermerà i palestinesi che hanno deciso di dire a voce alta “kalas!” cioè “basta!” a questa condizione di esseri umani ingabbiati.
Come ogni venerdì, anche domani la giornata avrà un tema e il tema sarà “i giovani”. Saranno loro ad organizzare gli eventi che daranno colore alla marcia. Osservatori imparziali immaginano che sarà una giornata molto calda. Detto senza aver di fronte la tabella dei quattro venerdì passati può non dare l’idea di cosa significhi, quindi diciamo che finora ci sono stati quasi 40 morti e quasi 5.000 feriti, ovviamente tutti e solo in campo palestinese.
Mohammed forse poteva salvarsi, sebbene le ferite allo stomaco con proiettili a espansione lasciassero poca speranza. E comunque per provare a salvarlo serviva un ospedale attrezzato e doveva uscire da Gaza. In Palestina l’ospedale che forse poteva salvargli la vita c’era e sta a Ramallah. E a Ramallah Mohammed è stato portato. Ma Israele non ha dato il permesso subito, ha aspettato che passassero tre giorni. Troppi perché potesse salvarsi.
Questo fatto viene letto dai gazawi come perfido e sadico divertimento. Forse era solo disfunzione burocratica, noi non lo sappiamo. Sappiamo però che Mohammed era solo un testimone disarmato e che è morto nel pomeriggio di ieri, 25 aprile, nell’ospedale di Ramallah, proprio mentre in Italia la giornata della Liberazione dalla quale gli ebrei filo-israeliani volevano escludere i palestinesi, ormai volgeva al termine. Restavano in campo solo le polemiche dovute alla partecipazione, a Milano, della cosiddetta brigata ebraica, la quale al di là dall’essere una reale espressione della Resistenza italiana (quella ha visto gli ebrei, in quanto italiani al pari degli altri, come resistenti …al pari degli altri) si pone come sostenitrice dello Stato di Israele che, come tutti sanno, viola ogni Risoluzione Onu, occupa i Territori palestinesi e spara sui giornalisti come i peggiori regimi dittatoriali.
Intanto a Gaza le pareti delle case e i muri delle strade si arricchiscono di altri ritratti di martiri in attesa di un “25 aprile” anche per loro, che ponga fine a questa mattanza di vite e di diritti.