“Lavorare gratis, lavorare tutti” è il saggio illuminante, scorrevole e provocatorio del famoso sociologo Domenico De Masi (Rizzoli, 257 pagine, euro 18).
De Masi prende in esame la storia della disoccupazione, più volte colpevolizzata e troppo spesso ignorata, anche da grandi economisti lungimiranti, come lo scozzese Adam Smith (1723 – 1790), e l’inglese John Stuart Mill (nato a Londra nel 1806 e morto in Francia nel 1873). In realtà anche oggi “non si sa con precisione cosa si possa definire “disoccupazione”, se sia un fenomeno debellabile, se ne esista una percentuale” minima ineliminabile. Si tratta di una parola molto elastica che ha significati diversi a seconda di chi la pronuncia. Ad esempio per l’Istat a una persona basta lavorare un giorno alla settimana e per magia viene già considerata non disoccupata. Nessuno vuole ammettere che il lavoro redditizio sta scomparendo come molte specie in via di estinzione.
Inoltre bisogna pensare al fenomeno della forte diminuzione dei carichi di lavoro dovuta alla grande trasformazione tecnologica e informatica degli ultimi dieci. Per molti impiegati e manager: lo stress “esiste e deriva dalla frustrazione per avere poco da fare dovendo, nello stesso tempo, dimostrare di essere indaffaratissimi” (p. 214). I titolari delle imprese purtroppo fanno molta fatica a capire come gestire questo processo e spesso costringono pure a lavorare da casa fuori orario. Di certo la situazione è molto complessa: ci vuole buon senso e bisogna valutare caso per caso. Ma oggi il capitalismo estremo ha deciso che “i genitori continuino ad ammazzarsi di lavoro finché non stramazzano lasciando i figli completamente disoccupati vita natural durante”, contribuendo così a quella deflazione temuta dai banchieri, dai governanti e da tutte le teste pensanti (p.253).
In effetti quasi nessuno ha il coraggio di dirlo e di scriverlo, ma siamo già entrati nell’era della sottoccupazione e della disoccupazione, incentrata sullo sfruttamento del lavoro occasionale, dei collaboratori autonomi irregolari e degli impiegati part-time, i cui innumerevoli esponenti probabilmente superano di molto gli impiegati a tempo pieno in molti Stati. Tutto questo avviene per tre motivi: il forte incremento demografico mondiale, i vari processi di accelerazione tecnologica e digitale, la rete delle multinazionali che mette in concorrenza quasi tutti i miliardi di abitanti del pianeta per abbattere il costo del lavoro e incrementare i guadagni a breve termine.
Comunque attualmente il welfare dei nonni e dei genitori garantisce la sopravvivenza dei giovani e dei meno giovani più sfortunati o meno sfortunati a seconda dei casi. “Ma la prossima generazione di disoccupati sarà composta da figli di disoccupati di genitori disoccupati e a quel punto, caduto il welfare familiare, o si mette a mano a una riorganizzazione generale della società, sostituendo il sistema-profitto con un sistema solidale, o la convivenza umana è destinata davvero a diventare un serraglio hobbesiano in cui ogni uomo è lupo per l’altro uomo e non esisteranno più paesi in cui si potrà scappare sperando di trovarli vivibili e di trovarvi lavoro” (p. 54).
Anche due studiosi dell’Università di Oxford hanno confermato che “la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera” (The Future of Employment, Carl B. Frey e Michael A. Osborne, 2013, citato a p. 166). Quasi tutti gli economisti considerano una certa percentuale di disoccupazione come fisiologica, con percentuali che variano dal 3 per cento degli anni Cinquanta al 9 per cento di oggi. Senza tener conto che in alcuni paesi mediterranei i politici sono arrivati ad accettare dei livelli di disoccupazione giovanile intorno al 40 per cento.
Se proviamo a ricapitolare l’intera teoria economica, possiamo affermare che l’attuale dottrina neoliberista si fonda sull’illusionismo finanziario a breve e medio termine, ma “Produzione e consumo sono due facce della stessa economia capitalista: se i consumatori non hanno i soldi per comprare, è inutile che i produttori abbiano le macchine per produrre… Henry Ford reinvestiva i profitti nella modernizzazione della sua fabbrica e negli aumenti salariali ai suoi operai per metterli in grado sia di produrre sia di comprare le automobili Ford” (p. 109).
Oggi grazie alle macchine e alle innovazioni digitali, “il reddito prodotto dall’economia basta per mantenere decorosamente tutta la popolazione. Il problema è come stipulare un patto tra ricchi e poveri, tra giovani e anziani in modo che tutti possano avere un ruolo attivo ed equo sia nella produzione sia nel consumo” (p. 239). Bisogna ridurre gli orari di lavoro a livello mondiale; bisogna aumentare i giorni di festività (magari creando una festività mensile a livello internazionale); bisogna anticipare il pensionamento dei lavoratori, partendo da quelli più usuranti (chi fa i turni di notte). Ciò che viene prodotto dalle scoperte scientifiche e dagli investimenti pubblici nella ricerca andrebbe equamente distribuito, “ciò che le macchine producono senza l’uso delle braccia umane deve essere distribuito indipendentemente dal lavoro” (André Gorz, Il lavoro debole, 1994).
Infine si può “affermare che, per ironia della sorte, è stato un liberale impenitente come William Beveridge (1879-1963), a fornire le idee portanti non solo alla sinistra inglese, ma anche alla dottrina sociale della Chiesa, alla Democrazia cristiana italiana, alla socialdemocrazia scandinava e al socialismo democratico renano” (p. 68). Grazie a tutti questi movimenti oggigiorno milioni e milioni di essere umani godono già di quella grande libertà “problematica” profetizzata da Keynes per l’abitante della terra del futuro: “come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza” (p. 20).
Alla fine del libro De Masi suggerisce ai disoccupati di lavorare gratis e di unirsi a livello digitale in modo da mandare all’aria l’attuale assurda impostazione della legge della domanda e dell’offerta, creata dalla dilatazione degli orari di lavoro straordinario e dall’aumento dell’età pensionabile. La nostra società sgangherata “nega un lavoro dopo avere insegnato che il lavoro è tutto”, e per il famoso sociologo è “Mille volte meglio lavorare gratis che non lavorare affatto. Perciò, disoccupati di tutto il mondo, connettetevi! Potete perdere solo la vostra depressione!” (p. 256).
Domenico De Masi è professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma (www.domenicodemasi.it/biografia, per un video: www.youtube.com/watch?v=hETA2i4fnk8).
Nota lavorativa – “Il lavoro salva l’uomo da tre grandi mali: noia, vizio e necessità” (Voltaire). Quindi è molto pericoloso lasciare troppi cittadini senza niente da fare. Servono nuove modalità di educazione per gestire positivamente le molte ore di inattività fisica e le attività di volontariato.
Nota finlandese: Nel gennaio 2017 la Finlandia è diventato “il primo Paese europeo ad applicare un piano che prevede il reddito mensile fisso di 560 euro al mese (pari al 16 per cento del salario medio nel settore privato finlandese) per i cittadini disoccupati” (con un progetto pilota, p. 240). Un’altra soluzione interessante potrebbe essere quella di pagare gli studenti per studiare più anni. Un’altra idea molto produttiva è quella di abbinare un reddito di base maggiorato a tutti quelli che svolgono un servizio civile obbligatorio (di uno o due anni, p. 242). In questo modo si può creare un forte senso di comunità tra giovani e anziani, tra i figli di italiani e i figli di stranieri, e si creano incentivi per aumentare lo scambio intergenerazionale delle idee e favorire così l’innovazione.
Nota paradossale – A pensarci bene molti di noi lavorano anche perché “ci convincono a spendere soldi che non abbiamo per procurarci cose che non ci servono per fare un’impressione che non durerà su gente di cui non c’importa niente” (Tim Jackson, Università del Surrey, reperibile e ascoltabile su Ted.com, citato in Retrotopia di Zygmunt Bauman, Laterza, p. 120). Inoltre molte multinazionali si arricchiscono grazie ai nostri dati e al nostro lavoro indiretto e gratuito: ad esempio a Tripadvisor e Facebook “bastano solo pochi dipendenti per organizzare il nostro lavoro volontario, accumulare le informazioni che noi forniamo e rivenderle” p. 147).
Nota banale e fondamentale – “Chi crede possibile la crescita infinita in un mondo finito o è un pazzo o è un economista” (Kenneth Boulding, economista, citato a p. 116). Forse la Natura fra circa quindici anni presenterà già un conto salatissimo e dolorosissimo a milioni di essere umani.
Nota radicale – “L’operaio è di diritto e di fatto uno schiavo della classe abbiente, della borghesia… viene venduto come una merce… Rispetto alla schiavitù dell’antichità sembra libero perché non viene venduto in una sola volta ma pezzo a pezzo, a giorni, a settimane, ad anni e perché non viene venduto da un proprietario all’altro, ma è egli stesso che deve vendersi a questo modo in quanto non è lo schiavo di un singolo ma dell’intera classe abbiente” (Friedrich Engels, Situazione della classe operai in Inghilterra, 1845, citato da De Masi a p. 46). Oggi l’eccessivo grado di intermediazione del web consente di abbassare a dismisura i costi professionali, anche se consente di mettere in relazione professionisti di tutte le relazioni e di tutte le professioni. Le piattaforme come www.upwork.com ci renderanno più felici, ma più affamati per molti mesi.
Nota marxiana – “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”, più o meno recenti (Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, citato da Bauman in Retrotopia, a pag. 155 e 175). Ma oggigiorno è giunta finalmente l’ora di fissare e rifissare il misterioso orizzonte davanti a tutti noi, anche se l’innovazione tecnologica “scompone l’attività del lavoratore in una sequenza di operazioni elementari in modo che a un certo punto una macchina possa prenderne il posto. Così si può vedere direttamente come una specifica forma di lavoro si trasferisca dal lavoratore al capitale” e come il valore del lavoro venga gradualmente ridotto (Grundrisse, citato a p. 169).
Nota keynesiana – Per Keynes “Non è vero che l’interesse personale è in generale illuminato; più spesso gli individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli per raggiungere anche questi” (citato a p. 83). Keynes si considerava un liberale, non è mai stato di sinistra e usava dire: “La lotta di classe mi troverà dalla parte della borghesia colta” (citato a p. 86), ma “I teorici classici assomigliano a dei geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali, scoprendo per esperienza che linee apparentemente parallele spesso finiscono con l’incontrarsi, rimproverano loro di non mantenersi rette, come se l’esser rette fosse l’unico rimedio contro le sfortunate collisioni che si verificano” (citato a p. 83). E dopotutto “non fu il New Deal a mettere in pratica le idee di Keynes, ma fu la teoria di Keynes a giovarsi dell’esperienza” di buon senso “offerta dal New Deal” americano di Roosevelt iniziato nel 1933 (p. 82). Infatti Keynes pubblicò la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta nel 1936.
Nota finale – “Credere che i lavoratori sostituiti dalle macchine troveranno inevitabilmente un’occupazione nella costruzione di quelle stesse macchine equivale a pensare che i cavalli sostituiti dai veicoli meccanici possano essere utilizzati nelle differenti branche dell’industria automobilistica” (Wassily Leontief, 1905-1999, premio Nobel per l’Economia nel 1973, p. 162). Durante gli ultimi 30 anni i lavori si sono polarizzati in una fascia alta e in una fascia bassa, gli impieghi intermedi si sono ridotti drasticamente e la fine di una recessione avviene senza il recupero dei posti di lavoro persi (Nir Jaimovich e Henry Siu, pag. 170). Nella provincia cinese di Guangdong hanno pianificato la “completa robotizzazione, entro il 2020, di otto fabbriche su dieci, riducendo così il 90 per cento dei lavoratori e lasciandone solo un 10 per cento costituito da informatici e manager” (p. 148).