Il lavoro intellettuale collettivo – Nella politica oggi c’è la necessità di un lavoro intellettuale collettivo, una necessità ricollegabile a quanto aveva pensato, quasi un secolo fa, Antonio Gramsci (non è tutto da “rottamare” ciò che è stato elaborato e praticato nel corso del ‘900).
Gramsci infatti aveva prospettato il partito come intellettuale collettivo (il “moderno principe”).
Ebbene, oggi dovremmo individuare le modalità per calare quella prospettiva – la costruzione dell’intellettuale collettivo – in una dimensione che non è più quella dell’organizzazione partitica dall’impianto militare, secondo l’impostazione leninista, ma un qualcosa di più ampio e diffuso, in cui sociale e politico si intrecciano.
Già Gramsci aveva parlato di egemonia, da ottenere tramite il confronto e lo scontro nella realtà sociale, attraverso le proprie elaborazioni politico-culturali, attraverso il difficile cammino della democrazia.
Mitezza, indignazione, conflittualità – E’ necessario anche applicare la virtù della mitezza in politica, specialmente dopo aver visto la trasformazione delle discussioni politiche nei talk-show televisivi, ma anche nelle sedi istituzionali, in continue risse ed aggressioni verbali, un ulteriore elemento del degrado attuale della politica.
Ma la mitezza va coniugata con passioni e sentimenti che fanno parte della tradizione della sinistra e che pure sono indispensabili allo sviluppo di un nuovo pensiero e di nuove pratiche. Come coniugare cioè la mitezza con l’indignazione (l’indignazione contro l’ingiustizia, punto di partenza per chi vuole collocarsi politicamente a sinistra), la mitezza con la conflittualità (elemento indispensabile per far vivere la democrazia), la mitezza con l’individuazione degli avversari (il conflitto si esercita nei confronti di poteri e interessi ben definiti), la mitezza, che comporta anche la valorizzazione del dubbio e la ricerca continua di nuovi elementi di verità, con l’affermazione di valori e obiettivi irrinunciabili.
Forse si può dire che la mitezza come nuovo modo di essere della politica fa parte di un orizzonte, per ora abbastanza utopico, verso cui dobbiamo tendere, ma che non sarà mai interamente raggiunto.
L’importanza della nonviolenza – La mitezza acquista maggiore forza se si sviluppa in direzione della nonviolenza attiva.
Brecht, in una sua poesia, sostiene che i tempi di ferro e di fuoco in cui visse non permisero a lui ed a tutti coloro che si battevano contro la barbarie di essere gentili.
Ebbene, a parer mio, oggi, per essere politicamente incisivi al fine di trasformare il mondo, occorre invece essere gentili, miti, nonviolenti (per lo meno avere una continua tensione in questa direzione).
Si tratta non tanto, o non solo, di una scelta etica, morale, dettata dalla coscienza individuale, quanto piuttosto di una scelta politica di fondo, che si basa sulla valutazione delle attuali forze in campo e sull’individuazione dei mezzi più idonei a contrastare i poteri dominanti (e che fa proprio il terreno della democrazia come l’unico praticabile).
Certo, ciò non significa rivedere il passato con questi parametri, né ignorare il fatto che, comunque, il ricorso alla violenza in certi casi può diventare inevitabile (quanto è accaduto, e sta accadendo, nel Rojava, in Siria, dove si è sviluppata una straordinaria esperienza, condotta in primo luogo dalla popolazione curda, di democrazia dal basso, con un determinante protagonismo delle donne, esperienza che, a Kobane, è stata difesa vittoriosamente contro i fondamentalisti “tagliagole” dell’ISIS e che oggi rischia di essere azzerata, nell’indifferenza generale, dalle truppe turche del “sultano” Erdogan, ne è un esempio significativo).
Vuol dire, piuttosto, che occorre finalmente affrontare, al di là delle enunciazioni rituali, un dibattito franco volto a mettere in discussione alcuni punti ampiamente consolidati nel pensiero di chi s’impegna a sinistra, nei partiti come nei movimenti, primo fra tutti quello che soltanto con la forza fisica, con un po’ di violenza, si ottengono risultati (la tendenza, assai diffusa, a considerare inefficaci le manifestazioni – delle passeggiate/scampagnate – se non vi è lo scontro con la polizia ne è una prova evidente). Ed anche a chiarire cosa s’intende per nonviolenza (parola scritta, come faceva Capitini, tutta attaccata): già il farla seguire dall’aggettivo “attiva” è indicativo in tal senso.
Si tratta non di sottomissione, di cedimento, di concessione agli avversari, di rifiuto del conflitto, ma di modalità relative proprio alla conduzione del conflitto stesso, di pratiche che tendono ad allargare la presa di coscienza intorno a determinate tematiche, di azioni che comunque mettono in discussione i poteri dominanti (si tratta di modalità, pratiche, azioni già in larga parte messe in atto dal movimento operaio e popolare, e cioè scioperi, sit-in, presidi, occupazioni, forme di disubbidienza civile, che vanno ad intrecciarsi con gli interventi all’interno delle istituzioni rappresentative).
La necessità di valorizzare le pratiche nonviolente – Tanto per fare degli esempi, nella situazione odierna, in cui il popolo palestinese subisce un’estrema ingiustizia, la strada per ridurre alla ragione il Governo israeliano è quella dei razzi di Hamas o non piuttosto quella dei Comitati popolari per la lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana attivi in Cisgiordania? E per uscire fuori dalle guerre che insanguinano varie parti dell’Africa non è forse determinante il sostegno a quella parte di società civile che si organizza dal basso, anche qui con un ruolo protagonista delle donne?
E c’è un punto che riguarda anche la ricerca storica: pure nel passato si possono mettere in evidenza le pratiche nonviolente che si sono intrecciate con le pur necessarie azioni violente.
Ciò si rintraccia benissimo nel periodo della Resistenza: accanto alla lotta armata partigiana vi sono state una serie di pratiche nonviolente, rimaste un po’ nell’ombra, e che pure furono il brodo di coltura di quella lotta.
Mi riferisco all’azione di quante/i nascosero e misero in salvo ebrei e prigionieri fuggiti dai campi di concentramento, alle centinaia di migliaia di militari portati in Germania dai tedeschi che, pur sottoposti a trattamenti bestiali, si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò, agli operai che nelle fabbriche del Nord Italia scioperarono nel 1943 in condizioni di estremo rischio, ai contadini, senza il cui sostegno le formazioni partigiane non avrebbero potuto condurre le loro azioni.
Ebbene, tutto questo è Resistenza e fa parte della riflessione che dobbiamo portare avanti per ridare senso e qualità alla politica, in particolare alla politica di sinistra.