Sono emerse nuove sconcertanti verità sull’esodo dei Rohingya in corso dallo stato del Rakhine verso il sud del Bangladesh. Grazie ad un rapporto arrivatoci da Amnesty International, possiamo ora fare luce sul motivo che sta dietro all’escalation nel dispiego di forze militari in Birmania per cacciare la minoranza musulmana dalle proprie terre. Sono state effettuate infatti numerose riprese dall’alto, che rivelano che i militari sono già al lavoro per costruire basi militari esattamente nei luoghi dove prima sorgevano i villaggi dei Rohingya. Questi lavori hanno due scopi principali: il primo è quello di avere a disposizione spazi idonei alle esercitazioni dei militari, mentre il secondo, che è di gran lunga il più importante, è quello di cancellare ogni tipo di traccia riguardante i numerosi crimini da loro commesso contro i Rohingya. Stando ai dati ufficiali del governo infatti, i militari si sono dichiarati responsabili “solamente” di aver ucciso dei ribelli appartenenti all’ARAKAN lo scorso agosto, ed hanno sempre negato di aver commesso ogni altro tipo di crimine. E’ stato solo quando incalzati dall’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, che hanno ammesso di aver ucciso altre dieci persone durante un raid in un villaggio. In realtà, i morti sono più di settemila, circa un decimo dei quali bambini, ma questo potrebbe non essere più provabile, visto quanto sta accadendo nella regione.
A tal proposito, Al Jazeera è riuscita ad ottenere delle dichiarazioni da Myint Khine, amministratore del Rakhine del nord: egli ha affermato che “non si tratta di appropriamento di terra e il governo non sta costruendo basi militari”, bensì che “saranno costruite nuove strade e altri tipi di edifici”.
Il tentativo di difesa dell’operato governativo da parte di Khine, soprattutto davanti alle immagini satellitari, appare più che goffo: è chiaro che il governo non si è nemmeno preparato una giustificazione credibile per i suoi crimini. D’altronde, perché dovrebbe farlo? Dallo scorso agosto la reazione della comunità internazionale è stata pressoché inesistente, nessuna sanzione ha colpito il paese asiatico, anche se Aung San Suu Kyi ha visto il ritiro di molte sue onorificenze assegnatele in passato. Non si è mai però andati oltre.
In questo clima surreale, l’ONU, attraverso le parole del responsabile per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Hussein, in un recente comunicato, ha dichiarato che “bisogna parlare di genocidio”. Svolta epocale: da “pulizia etnica” ora parliamo di “genocidio”. Il problema è proprio questo: parliamo solo, sono sempre e solo parole. Ebbene, non è parlando di crimini contro l’umanità che li si batte e li si scongiura. E’ ora di fare un ulteriore passo in avanti e passare a qualcosa che vada davvero a mettere a repentaglio la stabilità della Birmania. Mi riferisco all’applicazione di sanzioni sia nei confronti del paese, sia verso chi li appoggia (Australia su tutte).
Alla luce di ciò, non c’è da stupirsi se, come riporta la ricercatrice per il Myanmar di Amnesty Laura Haigh, nei campi al confine ci sia “un’atmosfera di panico”: i profughi hanno paura di non poter mai più tornare a coltivare le loro terre e ad abitare la loro regione. Inoltre, vista l’impossibilità del Bangladesh di accollarsi il destino di quasi un milione di persone, essi diventerebbero apolidi non solo dal punto di vista legislativo, ma anche da quello geografico, non avendo alcun posto dove stare.
Potrebbe infine sorgere spontanea un’altra domanda: qual è la percezione della questione Rohingya che ha la popolazione birmana? Per rispondere, possiamo fare riferimento alle parole dell’ambasciatore Htin Lynn, che in una recente intervista ha dichiarato: “E’ irragionevole che la nostra leader [Suu Kyi], la cui missione ha al centro i Diritti Umani, rimanga indifferente alle accuse della loro grave violazione”. Aung San Suu Kyi è infatti considerata un’eroina dalla popolazione, che la appoggia totalmente dopo la sua larga vittoria alle ultime elezioni. Se lei non denuncia e non prende posizione, nemmeno la popolazione di conseguenza lo farà. E’ anche importante ricordare che i birmani sono stati “vittime” di un vero e proprio bombardamento mediatico anti-Rohingya, che ha aumentato a creare dissenso e sospetto nei confronti della minoranza (non dobbiamo dimenticare che tutti i media principali nel paese sono controllati dallo stato). A questo proposito è arrivata nella giornata di ieri la denuncia (ma toh), da parte di Arzuki Darusman, presidente della missione internazionale d’inchiesta delle Nazioni Unite, che ha duramente attaccato il social network “Facebook”, reo di aver permesso la diffusione di moltissime fake news negli ultimi mesi, chiaramente volte a danneggiare l’opinione pubblica dei Rohingya.