“Chi è intellettualmente onesto deve ammettere che questa situazione di ingovernabilità è figlia del voto referendario”: così Matteo Renzi nella conferenza stampa di lunedì 5 marzo nella quale ha preannunciato le sue dimissioni da segretario del PD.
Questo passaggio, apparentemente secondario perché rivolto al passato mentre lo sguardo di tutti era proiettato sulle alleanze parlamentari del dopo voto, è in realtà rivelatore di un’analisi distorta di quanto è accaduto nella politica italiana nella scorsa legislatura.
Il voto referendario a cui si è riferito Matteo Renzi è ovviamente quello del 4 dicembre 2016, che ha bocciato il progetto di revisione costituzionale fortemente voluto dal PD (nonostante fosse in palese contrasto con la Carta dei valori fondativa del partito).
Basta un po’ di logica e di memoria storica per verificare che, se anche fosse passata quella riforma della Costituzione, la governabilità non sarebbe stata garantita.
Per almeno quattro evidenti ragioni:
1) A determinare l’attuale “situazione di ingovernabilità” non è stata la Costituzione o una sua mancata riforma, ma l’attuale legge elettorale (il Rosatellum), voluta anzitutto dal Partito Democratico, tant’è che porta il nome del capogruppo alla camera Ettore Rosato.
2) Il progetto di revisione costituzionale prevedeva che la fiducia al Governo venisse data soltanto dalla Camera, ma che per alcune materie il voto del Senato fosse ancora necessario, ad esempio per approvare una nuova legge elettorale. Il che sarebbe stato ancora più complicato visto che la Camera sarebbe stata eletta con un sistema maggioritario, mentre il Senato avrebbe rispecchiato le proporzioni politiche delle Regioni.
3) Prima dell’approvazione del Rosatellum, il Governo Renzi aveva posto la fiducia sull’Italicum, la legge elettorale esclusivamente per la Camera dei deputati approvata nel 2015 dal Parlamento. Qui è emersa con tutta evidenza la grande presunzione del leader del PD, poiché è stata approvata la riforma del voto per la Camera, dando per scontato che i senatori non sarebbero più stati eletti direttamente dagli elettori, ma dai consigli regionali, come previsto dalla proposta di revisione costituzionale. Una legge elettorale si deve approvare nel contesto istituzionale vigente e non prefigurandone un altro che potrebbe anche non essere realizzato (come poi in realtà è avvenuto).
4) Anche se fosse stata approvata e fosse entrata in vigore la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi, con l’Italicum non ci sarebbe stata una maggioranza parlamentare, poiché il premio sarebbe scattato soltanto se un partito o una coalizione avesse superato la soglia del 40% dei consensi (e nelle elezioni del 4 marzo non è accaduto). In origine l’Italicum prevedeva che, se nessun partito o coalizione avesse raggiunto il 40% dei voti, si sarebbe svolto un ballottaggio per l’assegnazione del premio di maggioranza, ma nel gennaio del 2017 la Corte Costituzionale ha annullato la possibilità del ballottaggio, giudicandolo incostituzionale.
In conclusione, chi è intellettualmente onesto dovrebbe riconoscere che la situazione di ingovernabilità non è figlia del voto referendario, ma anzitutto delle scelte sbagliate del PD: Italicum, revisione della Costituzione e Rosatellum.
Quando si fanno errori così grossolani su tematiche così rilevanti come le leggi elettorali e le revisioni della Costituzione, è inevitabile che alla fine gli elettori presentino un conto salato. È inutile e persino controproducente intestardirsi a dire che la colpa della situazione attuale è degli elettori per il voto referendario del 2016. Invece, riconoscere fino in fondo le proprie responsabilità sarebbe onestà intellettuale.
Per Matteo Renzi è stata un’altra occasione persa.