Giornata calda ieri a Gaza. Non solo perché la temperatura ha toccato i 30 gradi, ma anche per i numerosi posti di blocco. Già da un paio di giorni i controlli militari lungo la strada principale che attraversa la Striscia da nord a sud si erano intensificati e in tarda mattinata se ne è capito chiaramente il perché: la polizia era sulle tracce dei presunti esecutori dell’attentato della scorsa settimana al primo ministro Hamdallah.

Di sciocchezze, di bugie e di notizie gonfiate fino a distorcere completamente la realtà se ne sono lette veramente tante. Non ultime quelle odierne in cui si parla di potente bomba e di tentativo fallito di strage contro il primo ministro, il capo dei servizi Majdi Faraji e la loro scorta. Qui a Gaza, ma anche in Cisgiordania, non c’è una sola persona tra le tante intervistate che ritenga possa essersi trattato di un reale tentativo di uccidere Hamdallah.

Tanto l’entità della carica esplosiva quanto la dinamica dell’attentato lasciano a tutti la convinzione che si sia trattato di un messaggio politico e non di un possibile omicidio. Le divergenze tra le varie fazioni politiche riguardano le possibili motivazioni che vanno dal tentativo di interrompere il già difficile processo di riconciliazione al tentativo di facilitare la successione ad Abu Mazen ad uno o all’altro dei diversi candidati.

Visto che non c’è stata alcuna rivendicazione e vista la determinazione con cui Hamas  già dal primo momento ha respinto le colpe attribuitegli dal presidente Abu Mazen,resta da chiedersi perché l’Anp seguiti, al pari di Israele, ad attribuire ad Hamas ogni colpa facendo franare in tal modo il processo di riconciliazione come fosse un dispetto da fare al suo rivale. Ad ogni buon conto l’autorità locale, dal giorno dell’attentato, ha iniziato la caccia all’uomo che sembra essersi conclusa ieri con esito sanguinoso nel campo profughi di Nusseirat, al centro della Striscia.

Due militari uccisi, due presunti attentatori feriti gravemente e poi morti in ospedale, due arrestati. Hamas ufficialmente seguita a condannare l’attentato al primo ministro dell’Anp e i suoi esponenti dichiarano che chi ha agito lo ha fatto sia contro il processo di riconciliazione che contro lo stesso partito che governa Gaza e che, almeno a parole, è favorevole alla riunificazione con Fatah.

Il presidente dell’Anp, nonché di Fatah, sembra invece abbia colto la palla al balzo per dichiarare il processo fallito, ignorando le stesse parole del primo ministro il quale, a pochi minuti dall’attentato, affermava che il tentativo di riconciliazione sarebbe andato avanti. In tutto questo la cittadinanza sembra essere assente e prosegue nella routine della vita quotidiana. Nella serata di ieri dagli alberghi e dai ristoranti sul lungomare arrivava la musica delle feste di matrimonio, i carretti tirati dai cavalli riportavano indietro la frutta rimasta invenduta, nei villaggi seguitava la vita di sempre.

Intanto l’assedio prosegue indisturbato e ignorato dai media mainstream, il ministro dell’estrema destra israeliana, Bennet, dichiara che non ci sarà mai uno stato di Palestina in Cisgiordania e che i palestinesi se vorranno farsi uno stato potranno andarsene a Gaza che potrà allargarsi verso il Sinai: Israele accampa il diritto su basi divine e, per ciò stesso indiscutibili, di espandersi dal Giordano al Mediterraneo e il presidente Abu Mazen, invece che mettere in pratica l’antico e universale insegnamento dell’unione che fa la forza, si  lascia andare a sfoghi da bar contro l’ambasciatore Usa “padrino” di Israele lasciando che Israele stesso possa godere nella messa in pratica di un altro storico  insegnamento che dagli antichi romani ad oggi ha sempre funzionato, quello del “divide et impera”.

Forse per stanchezza e poca fiducia in quella che dovrebbe essere la propria leadership, palestinesi, gazawi compresi, proseguono la loro vita quotidiana sapendo che solo una congiuntura internazionale favorevole e una nuova leadership capace di una lucida visione strategica potranno – forse sarebbe meglio dire potrebbero – farli uscire da questo stato di prigionia in cui l’unica possibilità di non farsi sopraffare dal negativo è quella di camminare con piede leggero sulle catene imposte dall’assediante.

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