Le elezioni, siano esse politiche, amministrative o consultazioni referendarie, portano con sé un infinità di dibattiti circa la fluidità del corpo elettorale delle varie organizzazioni politiche in campo e se le elezioni sono state divisive per l’elettorato.
Quante volte sentiamo dire: «le elezioni consegnano un corpo elettorale diviso a metà»? Mai come in questa consultazione elettorale, in realtà, è vero il contrario: l’elettorato spacca il corpo politico e l’elezione.

Le elezioni del 2018 e quelle del 2013: la conferma dell’Italia tripolarista (o tripolare)
Nei dibattiti televisivi e giornalistici un tema ricorrente è quello dell’elettorato diviso date le percentuali dei voti. Tuttavia, lo schema si ripropone da cinque anni e da svariate consultazioni elettorali: la pasokizzazione del corpo socialista europeo, dunque la caduta libera del PD, è in atto da tempo e solo i commentatori affini alla parte politica in discesa osavano negarlo; l’ascesa di Salvini e del fenomeno-Lega è stata una sorpresa quasi per tutti, eccezion fatta per coloro i quali non sottovalutavano la portata dello strumento comunicativo e mediatico del soggetto; i cinque stelle che venivano dati in pessima salute data la prova d’amministrazione di Roma e Livorno (due città non prese a caso) si confermano primo partito.
Se si vanno a leggere i dati, infatti, osserviamo che il primo partito è senza dubbio il Movimento 5 Stelle che doppia Lega e Forza Italia: il sito del Viminale riporta i dati delle sezioni scrutinate (ieri sera mentre veniva scritto quest’articolo si era quasi al raggiungimento del totale) e dei collegi uninominali. Salvini e Berlusconi arrivano rispettivamente sopra il 17% e al 14% mentre il Movimento 5 Stelle si attesta oltre il 32%.

Se cambiamo il termine di paragone e anziché fare riferimento al duo Salvini/Berlusconi chiamiamo in causa il PD di Pier Luigi Bersani di cinque anni prima, notiamo che il Movimento 5 Stelle superava di qualche zerovirgola il rappresentante italiano dei socialisti europei, fermo al 25,43%, attestandosi al 25,59%. Il partito guidato da Grillo risultava prima organizzazione politica del Paese. «Siamo diventati la prima forza assoluta in tre anni», scriveva in un tweet del 2013.

Cinque anni fa si diceva di essere in procinto all’Italia tripolare a causa di un elettorato evidentemente tendente alla divisione in tre tronconi della vita politica anziché del declamato bipolarismo degli anni (leggi: decenni) scorsi. Ogni chiave di lettura delle consultazioni elettorali di qualsiasi ordine e grado era rivolta all’analisi di tale fenomeno a ragione ma si continuava a perpetuare la considerazione dell’elettorato spaccato.
Dopo altre consultazioni elettorali, comunali e regionali, si può ben dire che il paradigma è esattamente l’opposto: non è l’elettorato ad essere spaccato ma è esso stesso a spaccare le elezioni.

Le elezioni locali e quelle nazionali.
Delle politiche appena conclusesi è interessante notare come non ci siano le proverbiali mezze misure: al di là delle tripolarità espresse (Centrodestra, Movimento 5 stelle e coalizione del PD) non c’è nulla che arrivi alla doppia cifra. LeU si ferma poco sopra il 3% e subito sotto si colloca Potere al Popolo, poco sopra l’1%. Il ragionamento non vale per le coalizioni che rappresentano un ecosistema a sé ma anche al loro interno non ci sono corpi intermedi: o si ha il pieno, o il vuoto e la coalizione del Pd ne è un chiaro esempio. La lista +Europa non arriva al 3% nemmeno con una sovraesposizione mediatica oltre il normale e un buon 15% divide radicali italiani dai democratici. A seguito di +Europa, nulla sopra l’1%.
Se si dà un’occhiata, anche sufficientemente rapida, ai dati delle comunali di Roma di due anni fa, ad esempio, si noterà un fenomeno molto interessante: il Partito Democratico guidato da Giachetti si assestava poco sopra al 17% e già faceva presagire tanto la disfatta prima del referendum del 4 dicembre quanto i consensi di questa consultazione; nel centrodestra la Lega scontava il fatto del nuovo (anonimo) simbolo e lasciava la strada spianata a Fratelli d’Italia (oltre il 12%); i radicali a stento arrivavano all’un per cento e così via. Balzava agli occhi la lista, ad esempio, del Partito Comunista, penalizzata – se così si può dire – dall’affluenza in aumento, in controtendenza con le precedenti: si sarebbe attestata su percentuali maggiori dato che sfondava il muro dei 10.000 voti. Ed è proprio qui che l’elettore spacca, da ormai cinque anni, le elezioni e non il contrario: la percezione dell’alterità che può fornire una lista di un partito considerato minore nell’agone politico cittadino è decisamente maggiore rispetto a quella nazionale. Liste, rimanendo a sinistra, come quella del PC, che non è neanche riuscita a presentarsi in quasi tutto il nord Italia e che raccoglie un mestissimo 0,35% e Potere al Popolo dato che, nonostante la brilla gioia post elettorale delude le aspettative, attestandosi poco sopra l’1% dei voti, rappresentano la dimostrazione di una percezione di alterità che l’elettore consegna a queste liste solo se in una dimensione circoscritta come quella cittadina. Stesso discorso per i neofascisti o per la destra: Giorgia Meloni ingrana la quarta solo se uno dei due alleati commette un errore (Berlusconi a Roma appoggiò Marchini), Casapound alle politiche sfiora l’1% nonostante l’eccessiva sovraesposizione mediatica (checché ne dica il loro capo) e svariati eletti in vari consigli comunali in giro per l’Italia.
Così, dunque, gli elettori a livello nazionale sono pronti a votare una lista o un partito che non rappresentano al 100% (ma a volte neanche al 40%) i propri interessi di classe, si sarebbe detto un tempo, andando a togliere linfa a quella organizzazione che hanno magari sostenuto pochi mesi fa alle elezioni cittadine. Ed ecco che gli elettori di Casapound si trasformano in elettori di Salvini, quelli della Meloni si dividono fra Lega e Forza Italia e così via.

Questo trend sta andando avanti, almeno a parere di chi scrive, dalle scorse elezioni politiche e sta assumendo tratti sufficientemente interessanti per far sì che venga analizzato anche nelle prossime tornate elettorali. E chissà che non si torni alle urne in breve tempo: Spagna docet.